R.
O. S. A.
è
un giorno di sole
di
traverso sul letto, guarda il portatile. La guardo, si solleva verso
di me, se apro la mandibola schioccherà fortissimo, lo sento,
rovinerò tutto, prima o poi, ma la trattengo, la trattengo con me,
finché posso.
Come
sono finito qui? Scorrevo gli annunci di lavoro, nel sito
dell'Impiego. Laboratorio di Arteterapia, ehi ma conosco una
ragazza che lavora in quel posto, la chiamo, è gentile e due giorni
dopo mi contattano.
Non
che si stia bene, ma non si sta neppure male, seduti qui fuori, il
giardino è enorme, la villa è enorme, al sole, sulle candide mura
si arrampicano glicine ed edera. Gli ospiti della clinica giocano a
rimpallarsi una bottiglia di plastica vuota, in cerchio, come gatti,
si scaldano al sole, nei loro camiciotti di flanella.
Non
fosse per i mucchi di sigarette, per le grondaie sfondate a pugni,
direi di non essere neppure in una clinica psichiatrica.
Non
so se mi prenderanno, mi scoccia ammetterlo, che ormai un po' ci
tengo, a questo lavoro
Mi
vengono in mente le discussioni rabbiose di ieri sera, al telefono
con Chiara, uso sempre le parole sbagliate, i suoi tempi, diversi dai
miei. La nostra storia durerà come un tubetto di dentifricio, .
E
non ho l'accendino, frugo in tasca ma niente. Certo, ricordo che oggi
smetto di fumare, basta. Non l'ho preso apposta. Poi perché
rispondo a tutti questi annunci? Tanto per fare qualcosa, per non
finire l'accademia di belle arti, a Firenze, che mi piace troppo
poter dire, che faccio ancora lo studente.
In
realtà miro sopratutto ad evitare di trovarmi a dormire in macchina,
come auspica mio padre, o in qualche argine di fiume o di parcheggio
di supermercato, a mio avviso, luoghi pieni di fantasmi.
Un
fantasma però, lo incontrai lo stesso, ed era il mio, e gli piaceva
guardarmi di traverso. Lo vidi negli occhi di Rosa, la prima volta
che li fissai.
Mi
aprono il portone della clinica, dieci minuti dopo
Un'infermiera
bionda, alta, camice ben stirato, le spalle
-
entri pure, giovanotto, schiocca la cicca sotto il palato e
spalanca la porta di ferro, che cigola.
Il
medico si avvicina, scivolando dal corridoio perpendicolare al mio,
mi porge la mano senza presentarsi, è asciutta:
-
sei qui per il disegno, vero?
-
Si, sono Francesco, ci siamo sentiti via mail. Cambio lato alla
cartellina per dargli la mano, il dottore è uno che comanda, si
vede, lo capisco dai bellissimi occhiali in tartaruga e dalla mano
perfettamente asciutta.
Mi
guarda, come si guarda un insetto ribaltato, che non ripartirà.
-
Mi segua
Fa
spazio, tra le carte nel suo ufficietto, pareti color acqua: bambini
ridenti, un bassotto color sabbia, e delle belle case: una vita
intera, tutta nelle foto sulla scrivania, tutto pare diluito e
costoso, frivolo, come il tempo, che porta denaro nelle tasche di chi
lavora qui dentro.
Mi
crea ansia, questo profumo, è dolce, innaturale, ai lati degli occhi
spuntano dettagli fastidiosi, portapenne e piante di un verde
artificiale, assurdo.
Dovrò
lavorare solo con una paziente, una donna, circa trent'anni, la sua
storia si è fermata molto tempo fa, come il suo corpo
-
Non crederà mai alla sua età, aspetti di vederla. La tratti con
attenzione, non le dia informazioni personali, non le dia nulla, per
il suo bene, ci contatti per ogni dubbio. Anzi, passi da qua, ogni
volta che avete finito
-
Che obiettivi avete per lei?
-
Sarebbe già molto che parlasse: che colore preferisce, se ha freddo,
cosa le piace. Capisce? Perché parlare parla, ma è come se non
parlasse con noi, non si sente nulla, in quello che dice.
Esco
dallo studio pensando di aver sbagliato qualcosa, ho sottovalutato
decisamente il lavoro e fumo la mia prima sigaretta, dopo aver
smesso, stamattina. Mi serve qualcosa per scandire il tempo, per
capire cosa c'è prima e cosa c'è adesso.
Torno
in clinica il lunedì dopo, piove stavolta, piove da ieri. Mi son
documentato: arte e psichiatria. Angelo mi ha detto:
divertitevi, lei, sopratutto, falla divertire
L'infermiera
con il caschetto biondo, mi attende alla porta, allunga la mano e mi
prende a braccetto:
-
Rosa è alla 12, vedrà, che carina e stringe
-
Si chiama Rosa?
-
Vedrà
E
ride e stringe e mi sbuffa nell'orecchio un getto nasale caldo e
paludoso, d'aria di sigaretta
Davanti
ho una porta bianca, senza numero.
L'infermiera
bussa e fa schioccare la gomma sul palato, con un ghigno satanico che
ci manca poco che mi lanci dei preservativi
La
porta, ad aprirsi, impiega troppo
Sono
sudato: lei è in piedi jeans, tuta, un'enorme massa di capelli
raccolti, è magra, sottile, mani davanti al grembo. Sembra una
piccola madonna di ceramica, pallida con gli occhi neri come il
buio. L'ambiente è in penombra, l'odore che, fino a poco fa
qualcuno, qui, ci ha dormito. Mi avvicino.
Non
mi vengono cose da dire, ruoto di qualche grado: bella stanza
e mi guardo intorno, con quell'aria, che è la più stupida
imitazione di estasi che riesca a simulare.
Alza
le spalle e allarga le braccia, poi sospira. Sospiro anche io, più
piano, la stanza è piccola, ma non minuscola, lei è magra ma ha un
bel seno pieno, poi ci sono un letto, due armadi e una scrivania,
nessuna tv, dentro i suoi occhi neri mi pare di leggere una vena
d'oro.
Sbircio
un terrazzo con tavolino e due sedie, anche se siamo ad altezza del
terreno, l'illusione di uscire, magari tocchi le foglie dei pioppi,
che grattano sulle ringhiere e stai già meglio.
Almeno
non ci sono le sbarre alle finestre, star qui dev'essere una
scelta, nessun obbligo, lei vuol starci.
E
questa cosa mi rassicura.
Matto
il blocco di fogli grandi ruvidi, sul tavolo, dispongo intorno
matite, pastelli e colori a cera, che rotolano verso di lei.
Le
chiedo se vuole cominciare a fare qualcosa, dice no, per ora, e mi
siedo.
Non
parliamo, nessun libro sulle mensole, impossibile provare a costruire
una discussione, neppure un quadro, una riproduzione di Van Gogh,
niente.
Cazzo,
qui vogliono proprio farti pensare! Il silenzio, è un problema
mio, non suo, penso, scivolo sulla sedia, la cartellina cade, la
raccolgo, lei mi guarda le scarpe
è
caldo, davvero caldo qui, dico, eppure tremo.
Ci
sono delle Winston sul tavolino, le avvicina con la punta delle dita
alla mia mano. Annuisce, annuisco.
Sul
terrazzo c'è un foro nel muro, si infila la sigaretta, si preme un
pulsante, quando esce è accesa. Han paura che ci diamo fuoco,
non lo dice però, lo dicono i suoi occhi, lunghi e neri.
Fumiamo
con calma, lei è piccola, mi chiedo come si senta in quella tuta.
Non mi pare una ragazza che di solito metta la tuta
Rientriamo,
si siede e riprende il silenzio, abbandono l'idea di fare qualcosa,
per oggi.
Io
e lei non disegneremo mai, ancora non posso saperlo, però.
Una
sintonia strana, acrobatica, tra noi, come il volo degli uccelli, mi
pare capisca cosa penso e sorride, da sola, a capo chino. Non c'è
distacco, anzi la più forte assenza di distanza che abbia mai
provato
-
Cosa dobbiamo fare, qua, secondo te?
-
Io vorrei essere aiutata, vorrei essere aiutata a usare i colori, i
bianchi, soprattutto, vorrei parlare coi bianchi e con quei colori
che non chiedono nulla.
Dico
a Rosa che non sono un medico, non entreremo nel merito di cos'ha, ma
l'aiuterò, e se me lo permette, useremo i colori.
Risponde
vedremo, poi ringrazia.
La
felicità è un occhio espanso, le dico, ma ci andremo piano, molto
piano, vedrai.
La
settimana dopo, Rosa, sta sul letto, non si muove, cerca di togliere
una chiave dal mazzo, la deve far passare dall'anello, troppo
stretto, la lascio fare, senza propormi, a un certo punto impreca.
-
Tu che tipo di persona scegli di essere? Parla, ha un'altra voce.
Mi chiede dove son stato, se credo che un lavoro così poco scarso
possa darle qualche beneficio, mi accorgo che è diversa.
Poi
parla ancora, la voce si abbassa di un tono
-
L'han fatto per me, stavo male, non riuscivo più a starci, con
nessuno, poi neanche da sola, le ombre si allargavano, vedevo le cose
con i bordi più grossi, come disegni, poi il nero dei bordi coprì
quasi tutto, tra gli occhi e la bocca della gente, non c'era più
spazio per la pelle. Solo maschere, loro.
-
loro chi?
-
Io uscivo e mi dicevano delle cose, io non facevo nulla, ero brava,
ma era come se avessi sempre colpa, le cose si stringevano,
arrivavano sempre a finire su di me, capisci, i bordi venivano
davvero da me.
-
Erano nomi senza importanza, tre a volte, le peggiori volte ne
portavano altri
-
Chi erano?
-
Creature di piume ed enormi becchi neri, angeli, lì per la notte.
Erano forti, dicevano che ero io stessa, a punirmi
-
Quanti erano?
-
Sette e otto, e a volte non erano neppure loro, da dietro son tutti
uguali, si mescolavano e cambiavano continuamente posto, forma,
posizione erano soli e contemporaneamente c'erano tutti.
-
Potresti disegnarli?
-
No, rifugiati all'inizio della notte, in quell'angolino che si fa,
quando non c'è posto negli occhi, quando si pensa nel letto a cosa
sognare.
-
Se urlavo, quando ci riuscivo, la mamma veniva e mi accarezzava i
capelli, con le dita aperte, che sapevano di camomilla e tabacco
La
voce di mia madre era liscia come i marmi consumati delle entrate
delle chiese.
-
Dai fai la brava bambina
-
Dai fai la brava bambina che puoi
-
Dai che sei una brava bambina se vuoi
-
Dai fai la brava
sui
pavimenti c'era un flusso d'acqua e sangue che copriva una lastra di
muschio, di secoli
Un
giorno, si sentiva peggio del solito, nel capanno del giardino, prese
la benzina e aspettò il buio e gliela versò sul letto, a sua madre,
sui piedi. Non aveva fuoco con se, e cominciò ad urlare, ed era un
urlo che gli alberi cadevano al suolo, che la notte ti fa uno scatto
ancora più dentro il buio:
-
non uscirò non uscirò di qui. Ecco cosa diceva, Il giorno dopo,
l'han chiusa qui, erano gli angeli, a volerlo.
- Ma
non potevo più, essere brava
Finisce
di raccontare che la stanza è buia, le luci delle poche auto che
salgono la collina solcano i vialetti.
-
Non accendi mai la luce?
-
Non mi serve, l'elettricità
Sono
solo le sei e mezza, e c'è la cena.
Questi
posti tendono ad anticipare tutti gli orari, a rassicurare
Fumo
fuori, vicino alla mia auto, nel vasto parcheggio. Un giardiniere,
senza che gli chieda nulla, mi parla della difficoltà a far
attecchire gli ulivi su questa terra secca, troppo vicino al mare e
di quanto i proprietari pretendano sempre, salti mortali e miracoli.
-
Questi credono che gli ulivi stiano al mare, ma quelli sono gli
olivastri, e mica fanno le olive, son tutta un'altra roba
Vede
che fisso la finestra di Rosa,
Salti
mortali e miracoli, penso
-
Quella è figlia di uno degli uomini più ricchi di Firenze, un
nobile, e quella ragazza è proprio buona.
Vedo
Rosa, nella sua stanza, ogni settimana, per quattro mesi esatti,
parliamo, non c'è il pudore dei conoscenti, né la vigliaccheria
degli amanti, siamo vicini, negli stessi vestiti.
Vengo
a sapere che è entrata sei mesi fa, il padre paga una retta extra,
poi donazioni, tanti fondi per attività e ogni weekend, per lei, una
leggera terapia elettroconvulsivante, resta incosciente fino alle
quattro di pomeriggio e oltre, poi la luce, che le fa bene, le
dicono.
-
Chiudo gli occhi, mi addormento e cado, chiudo gli occhi, mi
addormento e cado. Ecco come sono il giorno dopo, ma funziona, penso
meno, il cibo acquista sapore. Sorrido, sorrido sempre un po'.
Due
fiammelle, perse in una stanza sulle colline, questo siamo. La vedo
aprirsi, capisco che è una cosa che deve andare piano, che passa di
traverso nel tempo.
Poi
un giorno mi accorgo che la fisso, la maggior parte della seduta,
finisce che io non parlo quasi più e lei invece mi descrive
immagini, fatti, gli alberi soprattutto, che la ossessionano.
Aveva
un albero preferito da piccola, Mi parla di un albero, dice di
possederlo, le dico che gli alberi sono della terra, mi dice che
quello è il suo. Sta piantato in mezzo al campo, vicino a Pistoia, a
casa sua. Una volta quell'albero le ha fatto una promessa, le ha
detto di prendere un pezzo del suo legno e di toccarlo
Tu
sarai questo legno, diventerai questo legno duro e impassibile, e le
tue vene saranno profonde, che non le possano più tagliare, e il tuo
sangue sarà profondo, che non vedrà più la luce
Stava
dentro al suo tronco, si stava sposando, col suo respiro, là dentro,
dove ha capito di poter essere sola e stare bene.
-A
me non pare possibile non averti vista prima le dico
-è
per quello che mi guardi così mi dice
Direi
che, in me, quel qualcosa è diventato tutto e ora questo tutto sta
prendendo una strada diversa. Devo bermi il Maalox, come acqua, per
la strada di ritorno a casa, il lunedì sera.
Entro
ogni volta in clinica sempre più di fretta, il personale non mi
aiuta, ritardano i tempi, moduli, firme, pare vogliano farmi stare
poco con lei, dico che devo andare, la gastrite mi strozza il
respiro e tutti si mettono di traverso. Un solo giorno a settimana e
questo corridoio, sempre più pieno di barelle, gente.
è
una giornata serena, di traverso sul letto, lei guarda il portatile,
mal di testa negli occhi. La guardo, si solleva, se apro la mandibola
schioccherà fortissimo, lo sento, rovinerò tutto, prima o poi, ma
la trattengo, la trattengo con me, finché posso
So
di sbagliare, ma posso avvicinarmi? Un esperimento, oggi
disegniamo ad occhi chiusi, mi metto dietro di lei, fingo di non
pensare al mio petto tra le sue scapole, all'odore del suo collo,
odio la mia vigliaccheria di restare appena scostato.
I
miei palmi si posano sulle sue nocche, fredde, non trema, è sicura.
-
Ora comincia a disegnare, occhi chiusi e poi mi dirai cosa vedi
Stiamo
fermi, un minuto, sono un feto, dentro di lei
-
Non vedo niente
-
Va bene, e io resto qua
Poi
sento le spalle tendersi, la mano destra si muove e mi dice "c'è
del vento, case, i pali della luce, pozzanghere scie colorate nel
cielo dei campi, il cielo in Portogallo era sempre tutto colorato
quando beveva dall'oceano, fiori di campo, piazza, Orsigna Dio, la
posta, i miei cavalli, le magliette pulite e il ruscello, il mio
respiro dentro l'albero"
Disegna
un arco, una porta e dentro rosso, leggero, quasi rosa, poi tratti
verticali forti, incisi nella carta, un tronco, un albero. La matita
buca il foglio, si sta incidendo la pelle della gamba, la fermo.
Ha
una sottana un po' corta, forse. Le sue cosce, sono muscoli fini, di
cerva, mura sottili percorse da scosse, percorse da graffi fini e
precisi, mura robuste. Mi vede che la guardo, sente cosa guardo. Si
ritrae, i piedi ad uncino e tira la gonna sulle ginocchia. E trema,
come un'epilettica. Mi alzo in piedi. Lei gracchia e urla:
-
Vattene Francesco, meglio se non vieni più
-
Senti, non vuol dire nulla quello
-
Ti hanno mai stuprato con il manico di un badile? Mio padre si, e non
è che lo infilava e sfilava, lo girava dentro, come a volermi
rompere le costole e intanto sai che facevano lui e i suoi amici col
cappuccio?
Pregavano,
pregavano, pregavano, masturbandosi l'un altro, uomini e donne..
-
La cosa più stupida era dove guardavo, mentre lo facevano, guardavo
i miei giochi, come a voler vagabondar tra le stelle, diventare una
lucciola, un pensiero ed annidarmi lassù, sulla mensola, dentro a un
vaso e non vedere e strapparmi le orecchie, per non sentire i
grugniti e lui che chiedeva a Satana in persona, di dargli il cambio,
che gli faceva male il braccio.
Sento
forte l'acido in gola, non vomito solo perché non mangio da ieri. Mi
metto le mani davanti alla bocca, ho paura di quello che potrei dire.
Ora divento un soprammobile, pure io.
Rosa
si è messa a terra, a sedere, le gambe strette dentro, non vedo la
sua testa, è sparita. Non ha veramente la testa e le mani si
contorcono una dentro l'altra, due serpenti, che si scacciano, come
avere artigli dentro, che rodono.
-
Portatemi al torrente all'Orsigna, presto, devo lavarmi!
Urla
come un animale, non so dove stare, mi alzo e me ne vado, lascio
tutto sul tavolo. Fuori dalla porta, gruppo di curiosi, han sentito
urlare, il medico, esperto ed affidabile, mi fa cenno di seguirlo.
-
Si sieda
-
Stavamo lavorando
-
Lei non è qualificato, Francesco, abbiamo saputo che fate, non
doveva farle colloqui, ci sono gli psicologi per questo
-
Mi stava dicendo delle cose, parlava di animali, di violenze atroci,
parlava, dottore
-
Io non credo sia utile
-
Io si
-
Sappiamo anche troppo bene, cosa ha dovuto passare Rosa
-
Mi dia un'altra occasione, dottore
-
Ci sono giorni migliori, capitano, lei è grave. Sospendiamo per una
settimana, ci vediamo il 30.
Non
lo dice ma è impresso in faccia a tutti: e ora, per favore, dai,
levati dalle palle.
Inverno
Mi
ributto nella routine più piatta, finisco qualche lavoro che mi
avevano commissionato, mangio dalle scatolette, in piedi. Dei minuti
spero di essermi liberato di Rosa, relegata alla sua posizione di
malata, un errore familiare e sfortunato incontro sulla mia strada,
in certi momenti raggiungo una fusione totale con lei, mi pare di
sentirla respirare, pensare dentro di me, anche dove non c'è.
Acqua,
Acqua, come Acqua che una volta che si è mischiata, non c'è più
differenza, tra una e l'altra parte.
Mi
sottopongo a snervanti salite sui colli, così penso meno, una sfida
a rompere la bicicletta, a farmi scoppiare il cuore, finché le
ginocchia non sembrano immerse nel burro, finche la testa è un
garbuglio di cavi elettrici, che si massacrano a vicenda.
Domenica
29, non chiudo occhio, la mattina del trenta, ci arrivo male, sono
stremato, davanti alla clinica
Non
ha i suoi abiti, oggi indossa un camicione bianco, mi dice di starci
più comoda, i capelli sono un regalo, ogni volta che li vedo, non
sopporto la tentazione di fissarli.
Rosa
è una bambina, ora, che cresce particolarmente piano
-
Perché hai deciso di farti vestire così?
-
Tu mi avevi parlato di colori, io sento solo fastidio, da quando
vieni, cose che mi infastidiscono mi salgono su per le gambe, si
stanno risvegliando gli artigli, dentro
-
Cosa ti ho fatto, Rosa?
-
Tu mi dovevi far disegnare, io sento amaro in bocca, dovevi togliere
le schegge, le hai spinte più dentro
L'oro
nei suoi occhi neri, è tramontato, non esiste più, non parla più,
non uccide più.
-
La mia storia non merita di essere vissuta, Francesco, arriverò al
punto in cui aspetterò l'elettroshock per morire. In cui mi
nutriranno per svuotarmi, tubo davanti tubo dietro.
-
Tu sei ancora viva
-
Oggi, Francesco, interromperei qui, volevo solo vederti
E
non parla più, mai più, per un'ora.
Esco
e al bar della clinica, un vecchio paziente con tre denti circa, vuol
farmi sorridere: - che occhi che hai, la morte in faccia, eppure
qua sono io che ho il cancro
Non
riesco a rispondergli, nulla che non sia stupido o offensivo, riesco
solo a fissare il caffè, senza sapere che farmene.
Il
resto dei giorni non mangio, non dormo, il resto dei giorni non.
Mi
rassicura fare piccole cose, mi mette al sicuro, è come se mettessi
in pausa quello che penso di dirle, perché l'attimo dopo, già non
la conosco, e allora vivo solo quel presente, in cui sto.
Il
giorno muore, il giorno nasce, rido sempre meno, vedo in Rosa quello
che trattenevo, da anni, nelle mie pause, nelle latenze, nel
posticipare un incontro.
Oggi,
ho una strana sensazione, la sensazione che qualcosa non vada, entro
alla clinica, la 12 è aperta, vuota, il letto fatto, tirato, sento
un alito di frenesia dentro: Rosa?
Ho
dentro frasi di angoscia, paura: Non ho mai amato nessuna come te, il
terrazzino è un vortice di piume, bianche, sembrano piumini di
pioppi, non escono dal terrazzo si alzano e cadono, come una stanza
d'aria chiusa nello spazio.
Aveva
ragione Rosa, è davvero difficile, parlare col bianco
Mi
ricompongo, vado verso l'uscita, non voglio sembrare preoccupato, dò
un'occhiata alla sala fumo, dietro i vetro satinati, solo profili
pesanti, non c'è. Allora è ansia vera, è angoscia e vuoto, sento
lo stappo netto ho un metro di cordone ombelicale che mi sanguina
dietro, a terra.
Convinciti
ad andartene, è il momento giusto. Quello che le parole non
avevano mai detto, l'unica cosa ragionevole, abbandonarla, ci hai
pensato mille e mille volte, di far scegliere alle cose.
-
Francesco!
L'elegante
medico dirigente, il camice aperto, l'entrata perfetta della camicia
nei pantaloni, l'entrata perfetta nella stanza stessa, quest'uomo,
che doveva esser entrato in modo perfetto in ogni cosa, nella sua
vita.
Mi
guarda ha una sentenza, definitiva per me
- Mi
spiace, ho visto come la guardava, ma non era qui per fare poesia,
stava male, questi ragazzi han dolori dentro che son bolle di
sangue, non possiamo neanche immaginare. Stava resistendo da troppo.
- è
tornata a casa, dai genitori
- Rosa
non ha mai avuto genitori, da che so, è orfana da sempre.
-Vedi
l'errore è stato anche mio, ad assumerti. è andata via, ha scelto
lei, capito?
Lo
aveva chiesto lei, il trasferimento, un mese fa.
-
Non so cosa possa averle detto, vede, Rosa, non ha una storia sua,
Rosa vive di storie, che l'attraversano. Poi le lascia.
Nella
sconfitta c'è poca differenza come tra una vita e nessuna. Ho
spazzato via la malattia di Rosa, ho accolto la mia. Mi avevano
avvertito di non darti nulla di mio. Come diceva Ungaretti: la morte/
si sconta/ vivendo
Mi
infilo di nascosto a un gruppo di auto aiuto per alcolisti, al piano
terra, li ascolto. C'è un uomo grosso in camicia di jeans e codino.
Piange, ha il volto rosso stretto tra le mani e dice che ha rovinato
tutto e tutti e l'uomo di fianco dice, no hai noi e poi sei vivo e il
primo uomo dice che di essere vivo non gliene frega un cazzo e allora
tutti tacciono a capo chino e io me ne vado che ne ho già
abbastanza, mentre quello singhiozza e fuori una scritta sbiadita sul
muro: Ancona - Bologna, freccia a sinistra, freccia a destra.
Mi
si sfascia sul petto.
La
mattina dopo prendo due treni, così, il cielo e gli alberi entrano
nella terra, qualcuno forse è felice, ma se lo è, il mondo non se
ne cura.
Rosa
è una cosa, persa, ora è nelle parole, nel carattere delle amiche,
che mi scrivono di non pensarci, lontana come l'inverno.
A
Firenze percorro il passaggio sopraelevato sull'Arno, scale in ferro,
grate quadrettano il cielo terso. Mi sporgo sull'acqua putrida del
fiume, sotto, sento di sapere, mi sporgo ancora, vedo i flussi
accavallarsi e incrociarsi, le mani stringono la sbarra di ferro e
sono forti, venti dita, Stacco i piedi, sul vuoto.
Allungato,
ventidue metri sotto di me, per provare a sentirla, venti dita a
tenermi alla vita. Ondeggio, i bordi delle maniche del giubbotto in
jeans mi segnano i polsi, la schiena aperta, un inutile aquilone
steso al sole.
-
Credimi, morire non è niente, se ne andasse un po' d'angoscia.
Come
puoi natura, essere mia madre? Non c'è ombra di nulla che mi
interessi in te: compassione, protezione. C'è un grande male che ti
esce dal ventre, e viene da noi, per farsi ammirare, farsi amare.
Una
persona perfettamente in forma può reggere il proprio peso a lungo,
in questa posizione. Io, però, quanto potrò starci?…sei
minuti...dieci? Poi le mani cominceranno ad aprirsi.
Affogo
o magari mi sfracello sotto contro un masso. Se poi fa male.
Sollevo
la testa, un luogo immaginario, le fronde di un albero che non può
esistere, sopra di me rami come vene nel tronco del cielo.
Mi
sento dentro al suo tronco. Ora non saprei dove stare, se non qui.
"Rosa
di rose, Signora di signore" è questa la cantilena della monaca
senza volto, nascosta dietro al barbagianni
Epilogo-
Lucciole
Ho
bisogno di andare, entro in un sentiero così nero, foresta dritta e
alta, che mi porta sempre avanti. Non sai dove sei, ma prosegui, un
odore che ti dice di qua, e a un certo punto trovi come delle
luci, sono luci piccole, capisci che c'è qualcosa che ti aspetta e
hai il cuore pesante, ti trovi in un campo di lucciole, sono migliaia
ed è buio e sei da solo e pensi che è un luogo dove ci vuole del
coraggio a venire da soli, perché è pieno di luci.
Ti
dispiace non avere nessuno, perché tu, l'amore, l'hai sempre
scacciato, ti sei avvicinato in tanti modi, ma poi hai sempre scelto
di essere solo e sei in questo campo, ed è umido, intorno sei pieno
di queste lucciole, svolazzano come fiammelle, come piccoli pensieri,
che si sono persi nel buio, orti, nel sentiero.
Senti
un peso dentro, incredibile, capisci che devi esser qui per un
motivo, e sei solo da quando sei nato, sei arrivato dove dovevi, alla
consapevolezza di aver perso tutto e di essere una parte di queste
luci.
Mi
chiedo come loro mi vedono e se forse non ci sia nulla, tra me e
queste lucciole, c'è soltanto la consapevolezza di esserne parte, di
esserne dentro, non so se loro vedono in me qualche luce, voglio
soltanto andare avanti e sentire di avere un senso.
Questo
posto non dovrebbe finire mai, vorrei che i bambini lo vedessero,
penso a chi vorrei fosse qui e non mi viene in mente una persona in
particolare, non ci sono, o le ho cacciate o non ci sono. Ti rendi
conto che vieni qui per un motivo, che è essere solo, che non è
esser morto, perché morto non è un problema, è solo.
Le
rane gracchiano lontane, ci sono delle canne con sopra dei pezzi di
carta lucida che vedi appena al buio, ma, prosegui, potrebbe essere
un posto felice, dovrebbero portarci i bambini qui a sfiorarle, i
bambini.
Rosa
era qui con te, forse più di quanto ci fosse mai stata
- Rosa,
dove cazzo sei finita? Ero io il pazzo per te, eri la persona che
voleva stare bene e io il pazzo che non voleva guarire, ero un pazzo
che cercava le lucciole.
Ed ero una di loro, una di loro, ero
una lucciola anch'io, come sempre. Ero una lucciola anch'io, che
voleva essere buio, io volevo essere buio e non potevo perché avevo
la luce e non potevo essere buio.
Solo
perché son tante luci non vuol dire che siano giuste. No, non lo
sono per forza, cammino e non voglio trovare nessuno, nessuno.
Io
ho un sole, dentro, dentro, quello che Rosa mi ha dato, quello che ha
messo su di me come un velo, ma era un sudario, Rosa.
Una
vena di gioia, passa presto.
Questo
buio enorme, io lo accetto, e ci finisco dentro, fino al collo, e lo
sposo e poi sotto, fino a non capire più nulla. Fino a perdere lo
spazio, l'intensità e il fondo.