Fumo
le Camel, le stesse di mio padre, ma l'amore, non l'ho mica mai
capito cosa sia, a volte mi ci fisso a pensarlo, e vorrei catturarne
un brandello, osservare un grammo d'amore grezzo, sottovetro. Ma cosa
sarebbe? Surreale, tossico, un Caravaggio? Forse nuotare in un mare
caldo e scuro.
E
insomma, sono qui, a letto, che penso a questo e sono sveglio, ore
6:04, poi una scossa, schiena ritta e tutto comincia a tremare, un
boato, lo stomaco, affamato, è nella terra. Conto le mie cose, le
saluto, ma oggi non mi alzerei dal letto, crollasse tutto.
Amare
Francesca era cicatrizzare una ferita ogni giorno, con cose buone,
pazienza, per poi spargerla di sale, la notte e stare sempre,
comunque nello stesso modo.
Si
muovono gli oggetti, chiaccherano tra loro e non cadono, la casa geme
e ancora trema, infissi doloranti come denti cariati. Ruoto la testa sul cuscino,
il comodino, spostato di un metro.
Ora
son fermo.
Francesca
mi ha ucciso, il terremoto, invece, no. Sicario inesperto. Ogni volta
che mi sveglio, che mi son svegliato, era terremoto e alluvioni, la
sera.
Mio
padre era un puttaniere, se le scopava tutte, ogni mattina tornava in
bicicletta, fischiettando e lasciava un fiore alla mamma, sul
comodino. Poi andava al lavoro, otto ore filate, in fabbrica.
Ho
sempre pensato fosse l'amore, a riportarlo indietro, ogni mattina,
notti di cui non si poteva parlare, a tavola.
Mangia
la zuppa è calda!
Ma
mamma era oltre, sopra le nuvole, dentro al lago, ghiacciata nel suo
cristallo d'amore e babbo era solo dopobarba, camicia stirata
e tanta bici, centinaia di fiori, su quel comodino.
Sono
cresciuto, con quei fiori, nel bidone, mamma mi stava sempre accanto,
cuciva e stirava, per un'amica ricca e colta, distante da noi. Mamma
mi teneva vicino, ma io lo sentivo il battito, dietro la porta, il
cuore, il suo cuore era nell'altra stanza, sul comodino.
Quel
mattino di maggio, erano le sei, arrivarono tanti vicini, un vociare
mesto e costante, poi più forte:
-hanno
investito tuo padre, Marco! È morto!- vomitò la mamma.
In
pochi scatti ero all'argine del fiume, la bicicletta, fil di ferro,
come quello dei tappi di spumante, sottile, piegato, un lenzuolo
bianco e nessun fiore, non vidi nemmeno la punta dei piedi, forse non
era neppure là sotto.
-portate
via quel bambino, quel bambino, dio cristo!-
Di
tante cose non ho più capito nulla, da quel giorno, mamma s'infilò
nella cruna del suo ago, per non tornare. Io rimasi fermo, dieci
anni, a chiedermi cosa c'era dietro alla porta, sotto il lenzuolo.
Francesca
provò a spiegarmelo, ma non l'ascoltai.
Frugando
senza senso, tra i libri trovai, tre mesi dopo l'incidente, una
lettera, il linguaggio era cortese, come gli innamorati:
Mio
caro marito, mi auguro di riuscire a concludere questa lettera, ma
voglio parlarti del fiore:
So
che ami questa casa, so che mi pensi, lavorando alla pressa, otto
ore, per me e tuo figlio, ma il fiore, il fiore non riesco più a
sopportarlo. Ti sono grata di essere sempre tornato, ti sono grata
per i silenzi, ma ti prego, smettila, smettila di portarmi quel
dannato fiore! E scrivimi qui, sul tavolo cosa vuoi per cena.
Mariella
La
lettera portava la data del giorno prima dell'incidente, e io capii.
Capii che mamma non era gelosa delle altre, ma stava cominciando ad
esserlo del fiore, capii anche perchè il babbo fosse morto proprio
quel giorno:
-Ecco
babbo, cazzo, non avevi preso il fiore!-
Per
questo non tratto d'amore, preferisco ancora biciclette e fiori.
cambiare carattere ;-)
RispondiEliminabello.
RispondiEliminaFirmato Amica di Mariella.
ragazzi chi siete? non siate anonimi!
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