domenica 8 aprile 2012

Cassetto n°30


25 dicembre.
Mi sveglio, in realtà mi sveglia l'odore di arrosto e lo sbattere di pentole...tocco la sveglia: 9 e 45.
Bene! penso: quattro ore al lavoro. Fuori dal letto, aria fredda, due messaggi, uno è TIM, e l'altro di lei, che non riesce a rassegnarsi e mi dispensa un propizio proverbio indiano.
-Natale tibetano- penso, cinico, mentre giro scalzo la casa, e penso che nelle festività le proporzioni si modifichino, casa mia oggi, è piccolissima.
Cerco di preparare una sorta di colazione, tecnicamente caffè e due torroncini Sperlari.  Uno lo lascio a metà sul bordo del lavello, quello al cioccolato, invece, lo finisco, senza rimorsi. Durante il mio pasto frugale lo sguardo vitreo di mio zio, piantato tra le scapole, la mia fretta che sale, il suo non capire. Non ho voglia di leggere, resto in contemplazione del mio abete sintetico, spento.
Lo trovo bellissimo, sguarnito ed essenziale, ricorda le vecchie stampe giapponesi.
Sull'orlo dei trent'anni me la sto godendo, certo! Credo.
Rispetto al passato ho voglia di pranzo di Natale, ho voglia di stare coi miei, un bis da mia madre, insistente. In effetti siamo tutti più distesi, ci tratteniamo, nessuno critica apertamente nessuno e le portate si susseguono veloci, trotto, accompagnate da due discrete bottiglie di sangiovese. Forse il tempo ha rinsaldato, forse stanno scemando persino le energie per litigare.
Gioco con la cipollina nel piatto, riesce sempre a rotolare al centro, in una posizione diversa, la porto su, piano, con la forchetta, sul bordo.
Poi un sibilo, un botto e la tovaglia si tende, bicchieri si toccano, un baleno e tutto è a terra, in frantumi, cocci, acqua fredda sulle cosce.
Non realizzo. Mio padre è piegato, una mano tira il maglione lontano dal petto, come per strapparlo, non emette suoni, il suo viso è prima rosso, poi scuro. Sento, con la pelle, che la cosa è grave, proprio oggi. Ora.
Le mani cercano il cellulare, non credevo di saper tremare ancora così, e mi sfugge tra le dita, questa saponetta con la SIM, e va a cadere e si apre, esce la batteria.
Non riesco a calmare queste mani, ogni secondo fa la differenza, mi rimbalza nella testa, ogni secondo.
L'ambulanza arriverà, faranno del loro meglio e saranno parole rassicuranti, calde, con quei giubbini sempre perfettamente arancioni..
Penso a mio padre, al vento di risacca\ che è il nostro rapporto, pochi gesti, scarse parole, tanto in sospeso, che a parlare si aveva paura di ferirsi, quasi si avessero in bocca coltelli, non frasi. Lo tocco, provo a stringergli i polsi e, istantaneamente, sento peso,  perchè io e lui, di tanto in tanto, dobbiamo metterci le mani addosso, per capire che esistiamo. Lui ora è mio figlio, mentre l'occlusione aortica lo porta via da qui, sento il suo corpo perdere un poco di peso, forse è l'affanno della vita o semplicemente il peso dell'anima...come quel bel film. 
L'ambulanza è arrivata, in meno di dodici minuti, ora è tutto fatidico, guido, percorro le strade seguendo la giostra blu di luci, sopra avanza il circo del passato.
Supero un'auto come la mia, passo davanti a me stesso, mi vedo guidare, il labbro contratto, occhi vuoti, fissi sul portellone dell'ambulanza, potrei guidare così per giorni, senza pause e non accorgermi di nulla, del tempo che passa.
E ora, penso, inizio a morire pure io.

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