giovedì 28 novembre 2013

Cassetto n°108


Fu stupido tutto, nel complesso, quello che mi rimase impresso in testa dell'esperienza di gennaio 2005. Erano le undici e mezza quando Guerriero mi chiese una sigaretta, e io no, non gliela diedi, negai perché aveva rotto il cazzo. 
Guerriero era diabetico, iperteso, asmatico, miope, cianotico e incazzato duro, quella notte. La consegna era  di risparmiargli sigarette, risparmiargli stress forti, risparmiare in generale su tutto, come sempre.
Il che ovviamente era già in linea una contraddizione di termini.
- Non ne hai più di sigarette, hai fumato le tue dieci, e, come minimo altre dieci che hai grattato in giro! All'inizio prendevo ancora i pazienti di punta. Come risposta gli passai il Ventolin, e lui gli diede una manata di rovescio che volò contro le macchinette del caffè con uno botto, quell'aggeggio.
- Cazzi tuoi Guerriero, buonanotte!
- Mo voffoanculo sccctronzo! 
Ero stufo delle intransigenze dei pazienti della clinica. Non avevo l'autorità del direttore, neanche degli infermieri, che avevano accesso ai farmaci, ma non perché aveva aperto la testa a un tizio colpi di crick, vent'anni prima, per una lite di parcheggio, poteva trattarmi in quel modo.
Non era poi, in fondo, nemmeno pericoloso quanto credeva di essere.
Io, in quei giorni, stavo cominciando a fumare, circondato da ventisette pazienti che si sparavano tre pacchetti al giorno. Iniziare a fumare, lì dentro, era un semplice esercizio di potere sul fatto di decidere di pagare o meno per inalare del fumo.

Facevo notte con Cavina, ex infermiere psichiatrico di Villa dei Fiori ad Imola, ora libero professionista, un uomo alto e cadente, sempre vestito con pantaloni larghi e sdruciti maglioni losangati dai gomiti lisi. Cavina, scapolone ruspante, si diceva anche fosse miliardario e gran proprietario terriero, uno dei più grandi produttori ed esportatori di kiwi di Castelbolognese. Ma arrivava al lavoro sempre con una Panda 4x4 mangiata dalla ruggine e in cucina faceva razzia di formaggini e frutta sciroppata, come un quindicenne dopo un pomeriggio in bagno col primo numero di Penthouse della sua vita.  A chi gli chiedeva perché ancora facesse le notti a settant'anni, rispondeva che a casa si annoiava e, tanto, non avrebbe comunque dormito.
Cavina dalla sua non aveva certo la vitalità, i pazienti più lucidi lo chiamavano "il Lexotan", sfoggiava mani avvezze alla pratica contadina e occhi lucidi da cocker abbandonato.
Fare il turno di notte, per me, era sempre stimolante, vedevo psichiatria vera e studiavo per gli esami universitari ogni notte, chiudendomi nella stanza dietro alla porta in ferro color crema tutta scrostata. Era come entrare nel bozzolo, a dispetto del gelo artico dell'intera struttura, la stanza era sempre mantenuta tiepidina da un basso termosifone che pompava come un matto. Due giri di chiave e trovavo un letto militare e le solite coperte sintetiche marroni con motivo geometrico a quadratini color crema, avvolte nelle buste in plastica della Lavanderia Forlivese SRL.
Quella sera del 2005 tornai nella stanzetta del custode, alle undici e cinquanta, che sarei dovuto entrare alle dieci, da contratto. La stanzetta era, appunto, un letto, a lato il box doccia, un water senza ciambella e un televisore dieci pollici che qualche anima caritatevole aveva lasciato in pegno ai successori, quelle tv con l'antennina tonda e un minuscolo lettore DVD, novità assoluta dell'epoca.
In pratica, nel comodino, avevo trovato un paio di DVD porno di Benito, l'altro custode che sostituivo, ora in ospedale per angina pectoris.
Stavo solo cercando una Settimana Enigmistica da finire, quelle dove il vip in copertina era stato regolarmente arricchito a penna nera di baffi, neo peloso e immancabile fessura nera tra i denti. Ben presto mi trovai ad apprezzare il fatto che erano addirittura porno tedeschi anni settanta: quelli con le biondone grandi tette vestite da bovare ed enormi prati verdi altoatesini chiazzati di margherite e vacche da latte pezzate. Scoprì anche che dovevo tenere la presa scart premuta  contro la tv con una mano, mentre con l'altra, con furia da ventenne, mi toglievo il pensiero.

La mattina sveglia alle sette, puntuale, con un lamento di Lexotan-Cavina, dall'altra parte della porta tagliafuoco:
- Terapieeeeeee!
- Eh cazzo si! Di solito scendevo dal letto, mi infilavo i pantaloni senza respirare per non dover allentare cinture varie, ed ero già operativo. C'era da fare il giro-terapie, poi si tornava a casa. Alcuni infermieri, i più sbrigativi, decidevano di dividerci i piani per far prima, altri, come il Cavina, preferivano fare tutto con più calma. Entrare in quelle camere alle sette, era sempre traumatico, oltre a calpestare qualsiasi forma di privacy umana residua, non era raro trovare quadri urinari o fecali ai muri, odori che assumevano l'intensità di colori da allucinazioni da LSD, panorami di testicoli, eritemi, tette dai capezzoloni slabbrati e ogni quadro anatomico, la consumata ed ampia biancheria intima ingiallita potesse mostrarci.
La stanza di Guerriero era sempre la prima, la numero cinque, terzo piano. L'ossessivo Cavina bussava due volte e, ritmicamente pronunciava: 
- Signori,Te- ra- piaaa mentre compieva il secondo giro di chiave ed il primo passo in avanti dentro. 
La stanza di Guerriero non era tra le più lerce, ma, essendo la prima, l'impatto era notevole. La prima cosa che vedevo era il panorama suggestivo della sua nativa Val di Susa, in una fotocopia di cartolina turistica malamente colorata a mano e racchiusa in una cornice di maccheroncini dipinti ad oro. 
Lo sguardo poi si posava sulle due torri rampanti di cicche di sigaretta nei portacenere smaltati, realizzati durante l'ora ricreativa e prodotto principe da export di tutta la comunità, ed ecco la bocca sbarrata di Guerriero, sparsa di schiuma bianca e un pugno residuo di denti giallastri che trattenevano una lingua violacea e stinta. 
Guerriero era prono sul letto, il ventre enorme e teso da annegato che sbucava dalla maglietta bianca siglata Giannetti caldaie.  
Indossava anche jeans corti, tagliati con le forbici sulle gambe secche che terminavano in piedoni da Hobbit, con tanto di peli ed enormi unghie gialle, grosse come noci. Di tutto quel corpo malato, il piede, tumefatto e scarnificato dagli effetti cronici del diabete, restituiva la massima impressione di malattia e tumefazione.
Mi accorsi subito che qualcosa non andava: la bocca emetteva veloci sospiri sincopati, la dentiera usciva ed entrava ritmicamente dalle labbra, un effetto simile a quello della bocca di una carpa, occhi sbarrati, espressivi come palline in vetro con neve di Venezia. La lingua, gonfia e screpolata, ostruiva praticamente tutta la bocca. Gli presi un polso, gelido, la mano abbrustolita, ingiallita dal fumo, cadde con un tonfo sul materasso. 
BOM!
- Dai che respira ancora! Urlò Cavina
Con uno sguardo complice ma molto, molto meno mestiere, lo prendemmo per polsi e caviglie appoggiandolo a terra, e questa è la versione ufficiale, in realtà l'esperto collega perse la presa facendo dare una botta rovinosa alla testa di Guerriero contro il lato in ferro del letto. Ancora mi sveglio la notte, con quella botta metallica sorda che si propaga nelle orecchie. 
Ho pensato più volte, poi, di averlo ucciso noi, ma quelle cose non si dicono, non c'è nemmeno il tempo di pensare, si doveva fare la manovra, altro che.
Ora, il massaggio cardiaco spettò al collega, già pronto a braccia tese, io mi avvicinai a quella bocca, meno invitante dello scarico di un cesso in discoteca alle cinque di mattina. La bava stava seccandosi da ore ai lati dell'orifizio, in una pasta densa bianca che gli copriva anche parte dei baffi. Si era staccata la protesi odontoiatrica, tra resti di cibo e tabacco, provai a toglierla con un indice ad uncino estraendo, però, solo un viscido avanzo di foglia d'insalata. Mi prese bruciore e sapore di vomito in gola, una botta allo stomaco, gorgoglio. La sua lingua, una grossa spugna marrone da lavaggio auto, secca. Nonostante l'adrenalina misi la mani a tubo per insufflare l'aria, provavo ad appoggiarmi più vicino, sulle labbra, ma una forza invisibile mi tirava indietro. 
Cavina al ritmo di DioBono 1 Diobono 2 Diobono 3 premeva a braccia tese sullo sterno, mentre io, a stento, riuscivo a gonfiare l'enorme torace di quel canotto vuoto, l'aria pareva uscire ovunque, mentre turavo, come possibile, le narici al poveretto. 
Inutile, sempre di più, sempre meno. Come spiegare il sapore di quell'aria che tornava nella mia bocca, non potrei.
Guerriero era freddo, livido, puzzava già di tonno scaduto ed era rigido come un'anta da armadio. Non riuscì ad appoggiarmi una sola volta a quella bocca devastata che mi aveva poche ora prima chiesto una sola, ultima sigaretta. Che avevo negato.
Osservando quegli occhi da orata di tre giorni non riuscì a sentire nessun orrore, neppure l'emozione nera della fine del rigagnolo della vita, provai solo un'insensatezza enorme, la vita, in quel momento, era una semplice qualità meccanica, ormai esaurita. In questo mondo, c'era un giocattolino rotto in più, solo un altro elastico senza memoria. Una stupidità enorme, semplice come ON/OFF altro che anima. Eravamo stati tutti scarsi come attori. Smessi gli abiti dei due miseri soccorritori ci guardammo: facce sciocche e braccia larghe, due passanti estranei, ma complici, davanti a una scena tremenda priva di pathos. 
Devo dire che Lexotan, alla fine, era davvero un uomo interessante, oltre che ricco. Mi venne voglia di andarci a prendere una pizza:
- Chi va a prendere il telefono? 
- Vai tu Matteo? 
- Si cazzo, ma son anche due rampe di scale.
Solo poche ore dopo mi chiamò mia madre, all'ospedale di Cervia, anche mio nonno aveva smesso di lottare

mercoledì 13 novembre 2013

Cassetto n°107


- Svolti dietro l'hotel, troverà una macchina, deve seguirla, saliranno tre persone, le indicheranno la strada per un altro hotel, poi loro scendono e salgono sull'altra macchina che l'ha seguita e sale lui.
- Perchè tutto questo?
- Perchè lui la mattina è di malumore e vuole stare da solo
- Ah, perfetto
- Lo deve portare a fare colazione, non gli chieda nulla, non lo guardi, noi la pagheremo dopo, domande?
- No, nessuna
Aspetto immobile, col motore al minimo, un'orologio questa Ford, stringo il volante e respiro lo smog del centro, non devo fumare! 
Sale il cliente, 150 chili di risveglio mattutino, sbuffa, ruota su sè stesso, con un ammirevole slancio di fiducia si lascia cadere all'indietro e siede con un tonfo, le sospensioni del taxi cigolano.
- Cristo non ci posso credere, si è buttato! Penso
- Deve sapere che muoio se non faccio almeno tre colazioni, poi morirò proprio per questo motivo, mi porti da Bender & Son Grill e Bar sulla tredici...sa dov'è?
- Subito signore

Cosicchè lo trasporto verso la sua colazione, che poi sarà l'ultima, solo che né lui né io possiamo saperlo. 
Mi parla per almeno sette chilometri col suo accento morbido del Mississippi: la tuta grigia in acetato con le bande laterali rosse fruscia ad ogni movimento, indica delle case di sua proprietà, il miglior ristorante di cannelloni del quartiere. Gli anelli alle dita, gioielli faraonici, pietre, perle di sudore ed occhiali a lente grigia, montatura in foglioline d'oro.
Guido regolare nel traffico del mezzogiorno di Manhattan, tutto liscio come un qualsiasi lavoro. Sappiamo ormai tutti della sua dipendenza da barbiturici e tranquillanti, stimolanti e anfetamine, le riviste da parrucchiera delle nostre mogli, aperte in soggiorno ce l'hanno detto in ogni modo e maniera, le foto sono sgranate, amatoriali. Ma, le dico, quell'uomo soffriva davvero, e non tanto come soffriamo tutti, quotidianamente, quell'uomo soffriva moltiplicando il dolore in ogni atomo, la sua anima bruciava scoppiettando nel sedile posteriore della mia Ford Escort giallo paglierino.
Soffoca strozzato nel corpo di grassone incartato in quel cellophane di tuta che si mette per sudare e suda.
- Lei non ha idea di quanto ci si senta soli in questo buco di culo di terra, ha dei fazzoletti?
Porgo al Re un pacco di Kleenex, che non mi restituirà mai, rimetto le mani sul volante appena in tempo per schivare un giovane asiatico che ha deciso di morire giovane
- Doveva stenderlo quel muso giallo! Non siamo andati in guerra per mantenere i figli dei comunisti annidiati tra noi! 
Non lo guardo mai direttamente, sento di non averne lo stomaco, ma non posso fare a meno di concentrarmi sui suoi capelli: nello specchietto centrale gli incoronano il volto, che è una maschera, un guantone da baseball marcio sotto la pioggia.
Un faccione che ti mette direttamente nella condizione di provare empatia, un legame esofageo, umano. I capelli sono l'unica cosa ancora davvero giovane: forti, vitali, lucidi, sempre perfettamente pettinati, come ai tempi di Love me tender o Hound dog, un ciuffo folto, pomposo, grasso e pieno di un fiero e rigoglioso crine del sud.  Solo che, ora, una folta peluria sbuca dalle orecchie piantante ai lati delle guance gonfiate a burro d'arachidi e frittelle con sciroppo d'acero e scoiattoli imburrati.
Elvis è una sauna umida chiusa in un guscio umano a pressione crescente, non è bello vederlo grondare così, copiosamente.
- Io non so cosa mi è successo, dopo Priscilla avevo sempre fame, e paura di tutto. Lei deve capire: una fame costante, mangerei le persone se potessi, per farle sparire, le persone ora mi spaventano a morte, capisce?
- Ci penso sempre anch'io, ogni volta che ne sale uno...
Non mi ascolta, non è abituato

- La realtà è che questa fame mi distruggerà, ma prima di morire, io mangerò la terra, caro amico. Io porterò con me molta più merda di quanta vi faranno credere caro amico tassista!
E allora per la prima volta incontro i suoi occhi, dietro le lenti, li sento puntati su di me, dentro di me.
Quest'uomo è un martire, mi sento ripetere, quest'uomo sta davvero male perché altri uomini possano sentirsi vivi, onesti lavoratori efficienti, è un bambino che gioca da solo coi tranquillanti..
Odio la gente, la loro presenza accanto alla mia, penso che se esistesse un posto nel mondo davvero lontano da tutti, dove l'uomo non possa aver messo piede, lo comprerei stamattina, poi credo che lo mangerei, si, coperto di sciroppo d'acero e cannella.


Non posso che annuire ad ogni passaggio, ad ogni curva e fermarmi davanti alla meta, il Re non paga mai, paga altri che pagano per lui. 

Mi prendo mezza mattina libera, quel passaggio mi lascia solo e svuotato, oltre a regalarmi un'enorme chiazza di sudore bordata di un alone biancastro salino sull'alcantara blu del sedile posteriore e non ci metto molto a capire che quella sottile chiazza e storiella annessa, possono fruttarmi almeno quindicimila dollari in più l'anno, per i dieci anni seguenti. 
Il giorno dopo faccio cucire a mia moglie una toppa grande come un palmo in quel punto, con la faccia del Re impressa sopra, i turisti e il newyorkese vanno pazzi per questo genere di cose, tipo:
 - Ah si, era proprio qui poco prima di morire?
Non credo che il Re sia diventato una cattiva persona, né che lo sia mai stato prima, non è sparare a due Vietcong a farlo. Credo solo che stia già morendo. La consapevolezza della fine ci rende avidi, ci rende bambini e il Re ci scalcia contro, ad ogni sorso di cose, ad ogni boccone, mentre sgranocchia una pannocchia ben rosolata coperta di sale e burro e un aiutante gli mescola il caffè con panna, nella saletta che ha fatto riservare per sé, al Bender & Son Grill e Bar sulla tredicesima.

martedì 5 novembre 2013

Cassetto n°106

Avevo solo ventitre anni e mi accorsi di non sopportare più la mia voce, mentre cantavo, dovevo smettere perché, proprio mi dava fastidio. 
Più tardi, a casa, feci altri esperimenti, in camera mia, provai a leggere la copertina di una rivista di mia madre, ad alta voce, era: Autunno ed influenza, guarire con gli infusi.
Proprio non ce la facevo, non potevo più sentire il suono delle mie parole. Aprii la bocca con un gran sforzo e, ma che....niente non riuscivo ad emettere suono, terrore e basta.
Pur essendo intelligente, per la mia età, pur dicendo sempre cose sensate e vere, non sopportavo il mio tono, il mio timbro, l'inflessione. 
E allora tacqui. Stetti sempre zitto, da allora.
I primi tempi furono facili, tutti mi cominciarono a chiedere perché tacevo, cosa mi era successo, cosa avevo fatto.
Alzavo le spalle, facevo cenno di niente, come spiegare agli altri che non sopportavo più la mia voce?
Feci tante visite mediche, sano come un pesce, smisi presto di cercare risposte nella scienza...guardai dentro di me:
Nella mia testa parlavo con le voci degli altri, di mia madre a colazione, mio padre al lavoro, mia sorella Elettra la sera, prima di cena, con la voce degli alberi che grattavano la finestra, mi sintonizzavo col cuore di chi riposava di sotto, nel suo sonno.
Il bigliettaio del cinema Astra, dove mi rifugiavo ogni giovedì sera, aveva una della voci più simili a quella che avrei voluto fosse mia, un giorno, lo inclusi tra le mie voci. 
Ora potevo parlare sempre, meglio, e di più, non avevo bisogno di altre voci, della mia, in particolare.
Avrei temuto troppo, ad usarla, quella voce, era lontana, intima e sepolta, quella voce mi si stava disappartenendo e con gioia ne scordai il suono. Forse semplicemente l'avevo amata troppo e ora non la sentivo più, come il paio di guanti che restano nella confezione, finché passano di moda.
Allora tacere non solo divenne silenzio, ma musica, suono del suono e vita, e voce e ritmo. 
Erano passati tre anni e stavo lì ad oziare su un tappeto di foglie bagnate d'oro, in un parchetto autunnale, ero solo là in mezzo.
Chiusi il libro di poesie, che un amico da Roma mi aveva spedito, sentì dire "bello",  ma ero solo, chi aveva parlato?
Non certo io, eppure qualcuno aveva commentato "bello". Ne ero sicuro.
Misi il libro nella tasca e mi alzai col cappotto bagnato dalla nebbia, feci tre giri di panchina e mi chinai tre volte, sotto la panca. Non c'era nessuno. 
Alzandomi dal terzo controllo sotto le foglie, forte mi arrivò l'odore della nebbia, quell'impasto di umido e fumo appiccicato al naso, dei contadini che fanno fuochi sulle colline, che già alle quattro, nei pomeriggi di novembre, satura l'aria rendendola spessa.
Respirai così, senza fretta e colpito da una semplice, ottusa consapevolezza:
Che era tutto Bello.