martedì 16 luglio 2013

Cassetto n°96

Devo bussare sei volte, per farmi aprire il portone, ma poi entro. Sono tutti silenziosi, come statue, ombre in cerchio, riflettono gli uni sugli altri, ossessionati dal loro stesso numero in crescita, temono non ce ne sia per tutti.
Questo chalet è chiaramente fuori bugdet e non abbiamo neppure dovuto versare un euro, per l'affitto, l'impianto stereo con casse Bose diffonde un dolce suono lounge, casse da almeno 2000 euro l'una. 
L'arredamento, modernissimo, è ridotto al minimo. 
Ottima anche la cena: tagliolini agli asparagi, frittatina in crosta di parmigiano e straccetti di manzo all'aceto. Ma nessuno aveva fame.
Per chiudere champagne e semifreddo ai frutti di bosco. 
Chi ci ha invitato su questa montagna, lo sconosciuto che ha inviato la busta, lo sapeva, che non saremmo mancati. Pochi tra noi, ex-ospiti della comunità terapeutica Narconon, avrebbero rifiutato. Per ora siamo in dieci, stravaccati qua e là, tutto è stato organizzato in maniera eccellente, nome operazione: Sole Nero, la nuova alba.
Trovai la brochure nella buchetta tre mesi fa, una busta di carta grossa senza mittente, un indirizzo argentato sul cartoncino color ebano, una grafica finissima: 
Ore 21:00, Relais il Castelletto, tre km dall'uscita Barberino del Mugello, riunione ex ospiti comunità Narconon, anno 1997 poi sotto numeri di telefono e contatti mail.

Partono i primi timidi contatti via web, tra noi, l'idea di andarci comincia realmente a diffondersi un mese dopo "perché poi come sarebbe ritrovarsi, ora, da adulti?" 
Chi è qui stasera, ne è uscito definitivamente, magari non subito, ma poi ce l'ha fatta, ora siamo puliti. Si vede dalle nostre facce, si sente dai nostri discorsi, abbiamo solo bisogno di decantare un pò un vecchio amore, di staccare una sera dalla vita, che ci sta ammazzando.
Aggrappato al bracciolo in pelle bianca del grande divano Frau, qui davanti a me, il commercialista Zinzelli parla dell'inutilità di comprare ora piccoli immobili da ristrutturare. 
- Non è semplicemente il periodo...- conclude ammiccando ai presenti. Suda copiosamente dalle sopracciglia, ha una gran voglia di essere simpatico, pure lui, eppure pare poco informato su come procederà la serata. 
E dire che pensavo fosse lui, il finanziatore incognito di tutta la faccenda, ma ora ho seri dubbi. Stravaccato al suo fianco, a scrivere al telefono, c'è Sergio, grafico di Milano, coperto di tatuaggi a tema misto, spocchiosissimo nuovo ricco grazie ai loghi di un paio di felpe da Milano bene.
Filippo, invece, resta isolato da tutti. Maestro di yoga, toscano, forse di Pontremoli, percorre in silenzio contemplativo il reticolo di vene che gli solcano gli avambracci, mantenendo una perfetta postura nella posizione seduta con piedi uniti che è riprodotta anche nel suo biglietto da visita. 
Gli faccio un cenno ma mi ignora, finge di leggere i titoli nei dorsi dei libri sul camino.
A un certo punto, lancio un quesito, così, nell'aria: - Ma sta storia del Sole Nero, qualcuno sa di che cazzo parli? -
Proprio Filippo prende la parola, torna consapevole e si mette a parlare
-...il Sole Nero era un antico rito indiano, i nativi assumevano droghe pesanti in gruppo, in un ordine prestabilito. Era un rituale al quale partecipavano solo gli animi più corrotti della tribù, alcuni avrebbero perso la vita nel susseguirsi degli eccessi. Lo scopo era proprio quello, esplorare il limite e ricongiungersi alle proprie paure, depurare la vergogna propria e della famiglia per tutti i crimini e le assurdità commesse....
Uno solo, si dice, sarebbe uscito vivo dall'orgia, e solo lui avrebbe visto da quel giorno un enorme sole nero in mezzo al cielo. Un pianeta che nessun altro uomo può vedere, giorno e notte la prova fisica della sua condanna e dell'espiazione. Questo uomo sarebbe poi senz'altro diventato un artista, uno sciamano o un saggio -
C'è brusio elettrico tra i dieci ragazzi eleganti, li riconosco solo dai visi, diversi da quando erano scheletri o iene, con la rogna e i denti gialli che ringhiavano per le cicche di sigaretta a terra e mangiavano foglie dalle aiuole per calmare le scosse da astinenza.
Ora sfoggiano sorrisi perfetti, sono consapevoli, han figli, non fumano e hanno tutti un'enorme voglia di ubriacarsi, e di altro, tutti come me. 
Il rito dovrebbe iniziare alle 00:00 con la celebrazione del Sole Nero, si parla di una sorpresa, fantastichiamo sul contenuto della sorpresa.  Lo scherzo si comincia a diffondere un mese fa, su internet
- E come sarebbe, poi, se la sorpresa fosse proprio roba? 
- Ma perché poi non riprovare ora, da adulti? 
Spizzico cubetti di ananas e sorsi di vodka ghiacciata dal bicchierino al centro del bel tavolo in cucina, mi son perso nella musica e nei cassettoni intagliati del soffitto in legno. Il televisore trasmette immagini astratte, cascate di colore, ragni fosforescenti si arrampicano sullo schermo. 
Ho indossato una tuta, ciabatte da casa, una maglietta presa a Budapest.

Rientro nella grande sala illuminata dai camini e da piccole torce al neon, basse sui pavimenti, rendono ancora più suggestivo il muro decorato a strati sovrapposti in sasso e mosaici monocromi. Mentre mi riavvicino alla zona centrale, vedo la splendida collezione di katana antiche, illuminate dal basso da led color ghiaccio dentro teche in plexiglass. Mi affascina una stampa: un samurai, guarda la luna in un prato notturno, un'enorme testa mozzata in alto, sullo sfondo, gli occhi strabuzzanti di sangue, i denti in fila scoperti dalle labbra. Degli ideogrammi o roba del genere sul lato a coprire il resto, è molto equilibrato

Tutti stanno zitti, li vedo che controllano e pian piano parlano, coi loro buchi, tra le dita dei piedi, sulle braccia, nel cerchio delle caviglie. Promettono ai loro buchi che presto arriverà da mangiare, siamo in attesa, ma chi non lo è? Gradualmente la gente si spoglia,  non arriva il pacco, doveva consegnarlo un anonimo, la sorpresa, come temevamo, non arriva. 

Dicono, parlano, dicono che che il vero incontro non è che tra noi, che la roba potrebbe essere un pretesto, non è poi così importante, finire a farsi sul serio. Ma gli occhi si stanno infossando, vedo bocche seccarsi, aliti acidi. Ognuno è col sé stesso, con le ombre, le finzioni, si ritrovano buttati sulle panchine battute dal vento di Firenze Maria  Novella, ma anche Roma Termini,  Torino Porta Nuova, Bologna Centrale. 
Aspetto, so che finiremo male, non si uscirà come si è entrati da qua, ognuno ha già imboccato una qualche sua via, ha riabbracciato un parente sporco perso nel passato. Quello matto, quello di cui si vergognavano in famiglia. Io scendo scavo livelli su livelli dentro me.
Sono in cantina e un uomo sta bevendo vino di spalle, oltre la porta. Non l'avevo notato prima, ha un maglione bianco, una riga nera e una rossa, familiare.
- Questo vino è buono, ma non è il migliore 
- Non l'ho assaggiato, scusi, ma io credo di non mi sentirmi bene.
- La volta scorsa che ti cercai non c'eri, dov'eri?
Realizzo chi sia, una proiezione distorta prodotta nel buio della mia mente.
- Quello che sta accadendo, non è possibile, è folle!
- Perché diavolo poi dovrebbe importarmi? Io voglio solo stare qua a bere un buon calice
-  Nei tuoi pensieri ancora mi tormenti, ogni sera,  mi chiami, lasciami andare e perdonati.
Ho davanti mio fratello Alberto, morto di overdose in un'auto a Bologna, sei anni fa. L'unica serata che non andai con lui, aveva diciannove anni.
- Eravamo due bambini, due bambini di merda Matteo! Vai e lasciami bere, mentre chiudi la porta, chiudici pure le tue colpe.
Io non so se parlare, è lui, son paralizzato.
Capisco cosa facciamo allora, tutti qui: questo è il luogo dove paghiamo per quel che causammo. 
La morte mi sorride dalla porta socchiusa, è il porto e l'approdo, questa casa è un portale un ponte verso il proprio inferno interno, ecco perché ci hanno invitato, la scusa, il debito. Sapevano che la droga era un buon incentivo, un modo per muoversi tutti e  in fretta.
Devo andare a congiungermi al buio, io devo andare, uscire da questo cazzo di edificio.  
Sta per crollare tutto, dentro e fuori. Ho capito in quella cantina e ci lascio tutto quello che posso lasciare.
Salgo verso la sala. Mi corre incontro Filippo impazzito, farneticante mi spiega che sua madre, giovanissima e sorridente, gli ha appena servito un Manhattan in coppetta, fatto alla perfezione, pregandolo di non versarlo tutto sul tappeto di moquette.
La madre di Filippo si perse nei debiti, per curarlo, poi morì sola, in una casa di riposo comunale. Nel frattempo lui cercava sé stesso per il mondo appena guarito dal vizio.  Lo seppe in India, che era morta, stava salendo su un traghetto per lo Sri Lanka. 
Il commercialista paga, paga anche lui da solo e paga tutto. Suda, ha perso ormai otto litri d'acqua è pallido e secco, credo che potrei ucciderlo con una spinta, rannicchiato sul divano in posizione fetale, piange appoggiato all'Ipad.
Sergio urla al televisore, dentro ci vede la fidanzata di allora, i genitori di lei. Vede la sua incapacità di stare con altri, trova il fatto che ha prodotto solo idee copiate  e riciclate, fin dall'inizio della sua carriera. Poi si alza, scaglia nel camino tutto quello che incontra, cappotti, libri, vedo il fuoco prendere corpo e il fumo intasare la stanza in nubi dense e nere.  Le fiamme prendono i tappeti, le tende.
Per me è l'ora di andare. Gli altri non li vedo, sono inghiottiti dalla polvere, stanno ai tavolini lontani, come ombre sfocate.

Le quattro del mattino, quando esco dalla casa, sconvolto, non so se l'eroina sia in circolo nelle vene, il pacco forse è arrivato, non so se mi sono riuscito a fare il buco o no. Potrebbe essere tutta un'allucinazione di attesa. 

Cammino giù per la collina, non fa freddo, non provo sollievo, mentre tiro dritto verso un enorme Sole Nero, che si alza piano davanti a me.

martedì 9 luglio 2013

Cassetto n°95

Il pavimento della 4B sembra pulito, ma guardando bene tra le fughe delle piastrelle color crema, si nota ogni genere di schifezza. 
I bambini sono seduti in punizione, un triangolo, faccia a faccia, non è la loro aula. 
Immagina Paolo, novanta chili a tredici anni, un gigante ebete con la faccia chiazzata di peli di barba e Marina: magrissima e fusiforme, un mucchietto d'ossa e denti sparpagliati a caso nella figura elfica e brufolosa bardata da occhiali a lenti come doppi vetri da oblò di sottomarino.

Infine immagina Pietro, più basso della media, con gli occhiali e una spruzzata di capelli dritti color carota, col gel. Ha una faccina bianca e lentigginosa, sempre corrucciata come una prugna secca e non sopporta le punizioni di quell'arrogante della signorina Faedi: l'insegnante di italiano e storia. 
La signorina Faedi pare nutrire un'avversione innata per Pietro, lui l'ha sentita più volte, dire ai colleghi: "..un ragazzo con una marcia in meno", "non si può dire che non si impegni, ma…", "non tutte le ciambelle…" le mani ossute e ingioiellate aggrappate al registro, una finta espressione di preoccupazione disegnata sul viso, la catenella degli occhiali Chanel che ondeggia.
Lui, invece, capisce molto bene, capisce tutto, solo che non vuole dargliela una soddisfazione a quel mondo di giudici.
Stringe la stagnola nel pugno chiuso fino a renderla un sassolino minuscolo e durissimo, pensa di scaldarla col fuoco, una brace, che è la sua rabbia e di scagliarla a velocità supersonica tra le sopracciglia della Faedi. 
Un tonfo, una nuvola rossa di sangue vaporizzato nell'aria e sul piano in formica della cattedra e Pietro vede la luce dal foro che attraversa il cranio della prof.

Paolo, enorme sulla piccola sedia, si lagna, insopportabile e mostruoso e Marina fissa uno spigolo del muro, dondolandosi emette schiocchi con la lingua contro il palato, a ritmo, potrebbe far così le ore. Loro si che sono ritardati veri, lui che cazzo ci fa in quella stanzetta? Chiuso a respirare la candeggina in una situazione simile?
La carta fisica e politica dell'Europa sparisce piano, il taglio di luce solare sia abbassa, han voluto togliergli l'orologio, non vogliono neppure che sappia che ore sono. 
Una punizione solo sua, in fin dei conti: averlo pubblicamente associato ai due compagni, un'operazione, condotta con pazienza e gradualità, da inizio anno. 
Capisce ora, Pietro, il disegno completo: annoverarlo tra i diversi, renderlo buffo per un'antipatia personale, mentre lui, a casa, prende sberle dalla madre per i voti e occhiate di disprezzo dal padre, medico legale e accademico.
I suoi ci han messo poco, a credere alla Faedi, alle sue diagnosi definitive da insegnante frustrata. 

Ora guardate i pugni di Marco: le nocche esangui, tese e bianche. Quanta forza può avere un corpo di tredici anni? La pallina argentata è sparita, assorbita dalla forza nel suo pugno. 
Guardate Pietro, piegato in avanti, i gomiti che spingono sulle ginocchia e i piedi perfettamente appoggiati al pavimento in ceramica chiara. Osservatelo mentre sente il suo peso aumentare, crepare le piastrelle, affondare nel cemento.

Perché non li vengono a chiamare? Saran lì da tre ore, ormai.

- mi scappa, mi scappa, mi scappa, mi scappa....! - 
Piagnucola Paolo, la voce inquietante da mezz'uomo, potrebbe bagnarsi da un momento all'altro, Pietro sa di non poter sopportare oltre.
Marina invece, non emette più suoni, la velocità delle oscillazioni è al massimo e la bocca le si dev'essere bloccata a forza di schioccare la lingua: potrebbe soffocarsi se qualcuno non la ferma, è cianotica. 
Oppure potrebbe continuare a oscillare sulla sedia in legno laccato, per sempre, fino a perdere sangue dal sedere.
Prova disprezzo per i due compagni, nessuna compassione e sente una furia infinita per esser stato sbattuto in quel circo di fenomeni ed esserci entrato, senza far nulla, senza mordere, scalciare, senza piantarsi sulla porta dell'Aula 1.
Pietro osserva la scena come dall'alto, separato e appoggiato al soffitto.
Vede le tre sedie con Paolo, che sembra un continente tipo la Russia e la pozza di urina giallastra che si spande sul pavimento in modo irregolare, tagliando le fughe sui due lati, per poi invadere ogni singolo rettangolo di ceramica. 
Accanto vede Marina: un puntino di elettrocardiogramma impazzito, infine Pietro vede sé stesso, piantato nella penombra dell'aula. 
Inizia a sentire l'irrealtà del posto, si sente disperso, interno e spezzettato. 
Senti che urlo gli arriva da dentro, esce quasi senza che sforzo, ed esce così:

- Io- Non- Devo- Stare-  Quiiiii! -

Un colpo di reni, una frustata e Pietro si alza dalla sedia come un gatto, ha gli occhi fuori dalla testa, i pugni stretti e la braccia piantate lungo il corpo. 
Guardalo compiere dei giri concentrici intorno alle sedie dei due compagni, evitare la pozza di urina di Paolo che ormai occupa una mezza stanza. 
Osservalo fare dei giri, sempre più stretti, come uno squalo attorno alla zattera dei superstiti, la porta non è chiusa a chiave, ma sa che uscendo senza permesso, a questo punto, avrebbe perso, dato a loro quel che vogliono. 
Pietro sta girando attorno ad un punto: un brick di succo alla pera vuoto, appoggiato sul pavimento.
Continua a girare, coi muscoli delle cosce testi sotto la tuta e inclinati nello sforzo di torsione laterale, fino al dolore. 
Un attimo e i piedi si staccano simultanei dal suolo, si accostano in aria, le braccia alzate verso l'alto per la massima elevazione e la testa in basso, puntata al brick, al centro fin dentro di quella merda di brick.
è un senza tempo, sospeso, il punto zero che precede la chiamata della gravità, il blocco prima della discesa accelerata dalla spinta simultanea delle gambe giù verso il basso, linea perfetta.

Qualcuno armeggia con la maniglia della porta, su e giù, uno scatto, scrollano, stanno per per aprire, entrano ora.

Pietro pesta con tutte le forze il brick di succo alla pera posizionato al centro dell''Aula 1, contro il pavimento, il boato, che inizia ora:


E in quell'istante, il mondo
finisce.