martedì 27 marzo 2012

Cassetto n°27


DAL DIARIO DEL FILOSOFO TEOFRASTO DI BRANDEBURGO
LA TEORIA DEL RITARDO COSMICO
…Sono sinceramente convinto che giorno dopo giorno la Verità si stia manifestando nella mia vita con ritmo sempre più frequente: sto uscendo, per così dire, dalla caverna platonica ed accedendo all’iperuranio.
Questa mattina mi son recato presto a lavoro, sulle sei e mezza, come ogni giovedì, perché il giovedì è il giorno dei fornitori. Indossai la mia divisa con tanto di cartellino di identificazione, mi infilai in testa il cappellino della ditta e rimasi lì, al freddo, ad aspettare l’arrivo del camion. Mi sedetti su uno scatolone di viti, pungendomi anche il sedere, ma dopo averci strofinato sopra un paio di volte le mie natiche, trovai una posizione comoda. Aspettai…aspettai…aspettai…guardai l’orologio e…aspettai…aspettai…mi grattai la barba, mi sistemai gli occhiali e…aspettai…aspettai…aspettai…feci una capatina in bagno per svuotare il pipistrello e…aspettai e…mi venne il dubbio che fosse mercoledì.
Mi sollevai dallo scatolone, corsi nel retro del magazzino, dove teniamo di solito i calendari con le donnine nude; sì, era giovedì, lo confermava la scritta in caratteri rossi sotto il seno di Pamela Anderson “GIOVEDI’ 11, FORNITORI” . Dunque il dubbio metodico aveva fallito ancora una volta nella prassi della vita quotidiana: se sul calendario c’è scritto “GIOVEDI’ 11, FORNITORI” non ha alcun senso pensare che sia mercoledì, o sabato, solo perché questo presunto fornitore non si presenta: Cartesio, hai fallito ancora!
Ritornai fuori, a sedermi sulla mia scatola di viti ed aspettai…aspettai…aspettai…guardai l’orologio e…aspettai….guardai di nuovo l’orologio e…e lo riguardai ancora e…arrivò finalmente il camion. Non era proprio un camion, sembrava più un camioncino, di quelli vecchio stile, con il rimorchio con la struttura in alluminio e il rivestimento in nylon; quel genere di mezzi che pensi possano trasportare solamente clandestini dall’Est-Europa.
Un omino tarchiato, abbastanza burbero, scese dal camioncino, con una Marlboro rossa mezza accesa in bocca, come a conferma di tutti gli stereotipi sui camionisti e, come se non bastasse, ruttò pure, grattandosi le chiappe, mentre imprecava tra sé e sé. Lo guardai con un’aria leggermente di rimprovero, non troppo marcata (non volevo mi spezzasse in due), e il suo unico commento fu: “Lo so, sono in ritardo, che t’importa? Ho beccato il passaggio a livello abbassato e anche il treno era in ritardo di mezz’ora”.
Quel suo commento mi illuminò: il camionista era in ritardo perché il treno era in ritardo, anche se il camionista era venuto appunto in camion e non in treno, dunque perché il treno era in ritardo? Questa domanda mi assillò tutto il giorno.
Finito che fu il mio turno, non tornai nemmeno a casa, ma mi recai alla stazione del treno, per cercare informazioni. Mi risposero che a quanto pare la suocera del capotreno aveva avuto un infarto e, nonostante la grande gioia che questo evento aveva generato nel capotreno, questi fu costretto da sua moglie ad occuparsi della sventurata; non essendo perciò immediatamente reperibile un capotreno, il treno è dovuto partire con mezz’ora di ritardo.
Questo mi fece intuire due cose: la prima è che ogni giorno, se si tiene conto di tutti i treni in ritardo, molte suocere di capotreni hanno un infarto. La seconda è che ogni ritardo è causato da un altro ritardo. Riflettei attentamente e mi accorsi come anche io, quel giorno, avessi ritardato di mezz’ora, non solo il mio pranzo, ma anche la mia pausa caffè, la mia capatina d’urgenza al bagno e il mio pisolino pomeridiano. La mia vita stessa vita era in ritardo di mezz’ora.
Approfondii più che potei l’argomento; per fare ciò fui costretto ad andare all’ospedale, ad incontrare la suocera del capotreno. Era nel reparto rianimazione e a quanto dicevano i medici le sue condizioni erano stabili. Lì, nella sala di attesa, c’era il capotreno che mi spiegò come le condizioni erano state aggravate dal fatto che l’ambulanza, nel soccorrere l’anziana, aveva ritardato di mezz’ora, poiché aveva trovato le sbarre del treno abbassate (il che non fece che aumentare la gioia del capotreno). Ma non era finita qui. Venni a sapere che l’infarto ha colpito l’anziana poiché questa non era riuscita a prendere il suo farmaco per la pressione: a quanto detto dal capotreno infatti (che parlava senza nascondere un certo sorriso), la farmacia aveva aperto in ritardo poiché il farmacista era dovuto andare all’aeroporto a prendere la figlia, tornata in ritardo con un altro volo dalla Nuova Zelanda.
Tutto a quel punto mi fu più chiaro: il mondo intero vive con un costante ritardo. Da ciò si può dedurre che ogni ritardo rimanda ad un altro ritardo che, a sua volta, rimanda ad un altro ritardo e così all’infinito: si può affermare che questo ritardo cosmico corrisponda, in termini di tempo terrestre, a mezz’ora circa, come dimostra l’episodio della suocera.
Ma se ogni ritardo è causato da un altro ritardo antecedente in una serie infinita, si giunge ad un paradosso: non può esistere un ritardo se il tempo è infinito ed indefinito, cioè privo di un inizio e di una fine, cioè se non esiste un Ritardo Originario, che ha dato il via alla serie infinita di ritardi.
A questo punto della speculazione mi sono posto una domanda: chi ha creato lo spazio ed il tempo? Dio, certo. E se fosse stato Dio la causa del Ritardo Cosmico? Mi misi ad indagare.
A quanto pare Dio creò il mondo in sei giorni e il settimo si riposò. “E se si fosse riposato troppo a lungo?” questa domanda mi fornì l’intuizione necessaria per uscire dal paradosso: Dio creò il mondo con mezz’ora di ritardo. Come accadde? Ecco la versione riaggiornata della Genesi, alla luce della teoria del Ritardo Cosmico:
“ Finito che ebbe di creare l’universo, con tutte le sue creature, compresa quella scimmia depilata chiamata Uomo (Adamo per gli amici), Dio si concedette una meritata giornata di riposo. Partito la mattina verso il mare dell’Heden, con tanto di ombrellone e frigobar, il Signore si accomodò su di una spiaggia, a contemplare quanto aveva a fatto.
Anche Adamo era andato in gita quel giorno presso le colline del Paradiso; tuttavia, a differenza di Dio, non aveva la macchina e dunque era stato costretto a prendere il treno, convinto che, una volta tornato in stazione, il Signore sarebbe tornato a prenderlo per riportarlo a casa.
Ma quel giorno il Signore se ne dimenticò completamente, perché, stanco per tutto il lavoro che aveva fatto, si era addormentato sulla spiaggia. Il povero Adamo, tornato che era, rimase alla stazione ad aspettarlo ed aspettò ed aspettò, senza che nessuno arrivasse. Passate un paio d’ore, l’appetito si fece sentire, e Adamo prese a camminare su e giù in cerca di qualcosa da mangiare. Notò che lì vicino alla stazione del treno c’era un piccolo melo, sul quale crescevano della
stupende mele scarlatte, grandi, grosse, succose. Ciò che gli faceva strano era quel serpente che frusciava tra i rami di quell’albero. Quel serpente ricordava qualcosa ad Adamo, qualcosa di negativo, che non doveva fare; ma cos’è che non doveva fare? Non ricordava. Lo stomaco però cominciava a dare segni di cedimento e tutto quello sfarfallio interiore lo metteva a disagio. Che non dovesse mangiarle quelle mele? Dio gli aveva detto qualcosa a riguardo, eppure il suo stomaco brontolava…chi se ne sarebbe accorto che mancava una mela d’albero e che fosse stato lui a mangiarla? Nessuno probabilmente.
In quello stesso istante, Dio si ricordò che doveva andare a prendere Adamo e perciò, prese su le sue cose, si mise subito in moto per raggiungerlo. Corse velocemente, schizzava via sulla strada, preoccupato per le sorti della sua creatura preferita: non si sa mai cosa possano fare questi uomini - pensava sempre - uno li lascia un po’ da soli, a fare ciò che vogliono, e in meno di mezz’ora sono già a rischio di estinzione.
Arrivato alla stazione, la scena che gli si presentò fu orribile: Adamo, il suo preferito, era lì sotto l’Albero della Conoscenza a mangiare i suoi frutti e a parlare di “Uomini e Donne” in compagnia del Serpente. Questa visione mandò il Signore su tutte le furie: scacciò a pedate il Serpente dal Paradiso, scaraventò in aria tutte le mele e, preso Adamo per un orecchio gli disse: “Figliolo sciagurato, quante volte ti ho detto di non mangiare quei Frutti? Non ti si può lasciare solo un secondo che trasgredisci quell’unica, semplice, piccola regola che ti ho dato?!”
Adamo guardò negli occhi Dio e prese a piangere come un bambino: è vero, Dio era in ritardo, ma lui non doveva venire meno alla sua legge. Disse tra le lacrime: “Perdono Signore, perdono! Ho dato ascolto allo stomaco prima che a Te, Ti prego, non punirmi!”.
Dio si commosse a sentire le scuse di Adamo, ma era pur sempre un padre e un padre deve punire un figlio quando sbaglia: “Adamo, figliolo, poiché hai mancato al mio comandamento sono costretto a mandarti fuori dall’Heden e perciò dovrai procurarti il cibo con il sudore della tua fronte! Sono arrabbiato con te e tu lo sai, quindi non mi parlare per un po’, finché non sarò sbollito un po’. Ora va, prendi il treno, ed esci da qui!”
Detto questo Dio diede un biglietto di sola andata ad Adamo, direzione Terra. Sconsolato Adamo, prese su la sua borsa da viaggio, ci mise quel poco che aveva, salutò tutti e partì.
Il Serpente però, non stanco di tutti i danni che aveva provocato, decise di cambiare l’orario di arrivo e di partenza di tutte le linee, e fu così che il treno di Adamo giunse sulla Terra con mezz’ora di ritardo.”
Dunque è chiaro a tutti no? Questo, il Peccato Originale, è alla base del Ritardo Cosmico: quindi la prossima volta, quando vostra moglie vi dirà che siete in ritardo, non rispondete: “c’era traffico, ho beccato il passaggio livello” ma rispondete: “cara, non sono io ad essere in ritardo, è Dio che non è passato a prendere Adamo”.

Nicolò V.

sabato 24 marzo 2012

Cassetto n°26


Tu smetti il senso, ti ripeto che son tra i peggiori, mi ribatti che non è vero, vuoi prove del mio percorso fuori casa, ma non ho seguito le briciole, non ho seguito nessuno.
Sono anni che cerco lupi, a cui sparare, nel mio quartiere, ero bambino all'inizio e li immaginavo enormi, putridi, feroci, vedevo occhi accendersi in ogni strada, ogni bivio. Erano scie di sigaretta.
Caricando i fucili con pallettoni di stagnola e vetro, ieri puntavo a delle ombre, oggi punto al riflesso, domani, ancora, direttamente al sole. Cerchio di compasso. 
Poi ne vidi uno stecchito, piccolo cucciolo di lupo, morso dal freddo, ai bordi della carreggiata, faceva ancora più paura, posizione fetale, le zampe rannicchiate, una spezzata, il risultato nell'insieme era come....tremendo e banale.
Ma tu smetti il senso, mi doni acqua potabile e mappe del sentiero, aumenta il mio ritiro, aumenta la tua voglia di capire.
"Arrivo madre mia, il mostro è morto! L'ho visto con questi occhi, riverso ai lati della strada, ora che è estinto, però, sto pure peggio" 
"Ora siamo pochi. Dov'è finito papà?"
E tu smetti il senso.

lunedì 19 marzo 2012

Cassetto n°25


Comunità, Riolo, salgo le scale, cammino cammino cammino, vedo la macchia sullo scalino di marmo, quella a forma di occhio, ci penso un attimo, come sempre, ma poi la passo che mi pare già un pesce o forse solo un occhio di pesce. Passo doppio, saltello a piedi uniti, come da piccolo, scalini a due due per arrivare prima alla 14...cazzo, la caviglia! Se ci penso bene, ma proprio bene, era il 2008, la volta più bella, in mezzo a tutti i gradini fatti, alcuni che non esistono più, mi chiedo dove finiranno miliardi di passi fatti in scale distrutte...certo non qui... Nella mano tengo un lungo serramanico, grossolano arburese con manico in osso, ferro di lama a foglia, forgiato da pastori.  
Non ho dato nessuna moneta in pegno al fresco regalo del Dottor Vinci, regalo brutale, senza preavviso. Le persone-oltre prendono strani momenti per metterti qualcosa in mano, momenti che gli altri non hanno. Capisci solo dopo anni cosa ti stavano dicendo e capisci pure poco, se non di averli incontrati.
Io e il Dottore parlavamo di coltelli e di pietra serena, quella sera, pietra ottima per arrotare, mentre si esaurivano abbondanti porzioni di Teroldego, da bicchierini in plastica e cicche fumose schizzavano nel camino. 
Il tempo passava piano, in quella comunità e non sapevo, salendo le scale, che quella sarebbe stata la volta migliore, la miglior salita, ed era già conclusa.

lunedì 12 marzo 2012

Cassetto n°24

Cimitero










Gelido d'inverno, 
torrido d'estate. 
Ma non è così, 
per voi che riposate



Simone

mercoledì 7 marzo 2012

Cassetto n°23



Sono in un boschetto innevato, alberi sottili e regolari, sono più piccolo di ieri e ho paura di questo silenzio,  solo un vento leggero e  gelido fa da sottofondo, poi un suono protratto, elettrico, come di  televisore in standby.  Possibile che senta il mare qui, nel bosco?
Eppure questo è il suono di onde che risucchiano, vento che scroscia, poi insieme, uno sciacquo, come lavaggi d'acqua salata. Indosso la felpa rossa con l'aquila, era la mia preferita.
Questo posto è come il buio, come il fondo del mare, un ambiente enorme e piatto, senza spessore, solo ripetizioni seriali di mazzetti di tronchi e animali che spaventano.
Alcuni passi alle mie spalle mi fan saltare, è un uomo alto, spalle larghe, lunghe braccia e mani grandi, mi cammina intorno, è sereno, avrà trent'anni. Porta una camicia e una giacca grigioverde, in lana e pantaloni ampi con la piega, ha tutto l'aspetto di un militare, ma non ha gradi o simboli sul petto, sovrastato in altezza, lo osservo.
Ha appoggiato una bicicletta argentata, una Olympia, qualche albero più in là. Dentro di me sento di averlo già conosciuto, ma era più anziano e magro, più rughe sul volto e le dita erano  secche, nodose finivano in grandi unghie marroni. Sono sorpreso dai lobi delle sue orecchie, grandissime, lunghe, orecchie che non paiono di un uomo. Le orecchie sono l'unica cosa sempre uguale, insieme al portamento tirato, da repubblicano convinto.

Capisco di non stare vivendo nel presente, sono in un sogno o vivo passato, ho bevuto troppo vino, assopito da un fuoco scoppiettante. Cerco i confini di quello scenario, ma non li trovo, ricordo solo una foto, tagliata in due dal cemento di una provincia in costruzione, il mio paese.
Il profilo di un cavallino bianco trainato da una cordicella e sopra, un bimbo che ride, il riso ora si perde nelle neve e nella nebbia, solo nebbia e silenzio.

L'uomo ha un pacco di carte sotto il braccio, documenti, foto, planimetrie, getta una cicca nella neve, sigarette senza filtro, sigarette così, che non si vendono da anni.
Mi guarda serio, chiede come vanno le cose, anch'io, adesso, sono a mio agio...
" Bene, soliti problemi, credo sia stato peggio per voi...la guerra, la miseria..."
"Ma tu non sei forte neppure la metà di quel che eravamo noi"
"Dove state combattendo?"
"Non sono un soldato, son stato riformato per questioni familiari, orfano di padre.
Sto guidando un camion verso nord, al confine, ora è parcheggiato  nella neve a quattro chilometri da qui, sulla strada, ho dovuto pagare due contadini svegli per sorvegliarlo"
Si accende una seconda sigarettina, con il primo tiro arriva praticamente a metà, il fiammifero vola via, sfrigolando nella neve, che mani enormi che ha.
"Vado a recuperare prigionieri, nostri connazionali, ormai solo scheletri muti, che i tedeschi han dovuto lasciar andare, la guerra è finita, ora ricostruiremo tutto daccapo...non sarà una gita, neanche un pò."
Abbassa lo sguardo su di me

"Ma ora dobbiamo parlare"

"Cosa mi deve dire?" chiedo, come senza trattenere le parole.
"E' stato lei a scrivermi, una lettera datata 14 gennaio 2009, mi chiedeva di trovarci qui, oggi, ho fatto parecchia fatica a presentarmi, non creda..."

Non capisco e non aggiungo nulla, il freddo mi pietrifica, soffici fiocchi danzano dinnanzi alle mie pupille
"Io le ho portato quello che mi ha chiesto. Queste sono le cose in sospeso, alcune sono per lei e suo fratello, altre deve darle a Daniela e ad Oreste. Ho evidenziato a matita i passaggi più importanti...non abbia fretta di concludere questi compiti, potrebbero volerci anni, lo prenda come un percorso, mi creda"
Gli scarponi scricchiolano nella neve, rompiamo uova, mentre mi passa il pesante pacco di carte, nelle orme, il suolo, è compatto. Lontano, con la coda dell'occhio, sfreccia una lepre, si muove a scatti, come mossa da fili da un burattinaio invisibile sopra questa scena.

"Ma io non so che farmene, questa è la sua vita, non la mia!" ribatto, la carta è gialla, carta di quarant'anni, forse più
"E' qui che sbaglia, questa è tutta roba sua, se vorrà occuparsene, ne avrà per una vita!"
Mi pare sul punto di girare le spalle e tornare alla sua bici, lancia il mozzicone a terra e affonda la punta dello stivale nella neve: ssssst!
Quando continua: "in realtà c'è un'altra cosa che devo dirle"
Lo ascolto, non vorrei lasciare le cose al caso, dovrei capire davvero tutto subito, ma non capisco cosa devo fare, perché sono qui.

"Riguarda le due case a Punta Marina, quelle della causa in tribunale...avrei due parole a riguardo"
Attendo, so di cosa si tratta
"Perché vede, ora lo so, la storia è sempre falsa, scritta dai prepotenti, dai vincitori. Ma suo zio  Giuliano, è davvero l'ombra dietro alle vicende, deve provare a procurargli qualche fastidio, fatti chiedono luce..."
Quel nome messo lì a caso mi procura un moto di rabbia: Giuliano, ormai novantenne, l'uomo che sta muovendo da anni le fila del nostro dramma familiare, fratello di mia nonna, pare avere a cuore solo una brama di possesso e di espansione quasi innaturale.

"Ora deve essere giocatore, ora deve esporsi. Io ero buono, amico di tutti, lei ha una parte nera, è la persona giusta perchè ha dato il giusto peso al suo cuore, quello della metà."
Apre un grande fazzoletto di stoffa, c'è un pezzo di formaggio, due fette di pane e una mela verde
Estrae la punta di ferro, una saraca romagnola lunga quanto una bottiglia, taglio preciso,  mi passa la fetta di pecorino, sul pane, ho tanta fame e sento il sapore del metallo, il ferro.
"Giuliano ha ottenuto tutto quello che ha nell'inganno" continua "Ha seviziato, manipolato i suoi anziani, gli stessi genitori, partendo dalla tua bisnonna Ada, le ha sempre tolto tutto."
Sono ipnotizzato da quel coltello, un'arma superba,oggi persa nel ricordo dei vecchi al riposo , dopo il mezzogiorno.
"Decideva lui, come e se, in casa si sarebbe mangiato, comprato un paio di mutande, ha sempre dirottato ogni centesimo sui suoi conti e ora vuole quelle case, ma non ne ha diritto."
sbotto: "Cazzo, va fermato! Ma ha amici in politica, influenze..."
"Giuliano mi odia a morte, era concierge di un grande albergo il Prestige, quattro stelle a Lido di Savio, ricorda?"
Annuisco
"Beh,  che una sera, a servizio ultimato, gli portai delle bombole di gas, le aveva chieste giorni prima, non mi aspettava, era tardi, vidi delle cose, dico solo che aveva vizi ben peggiori del truffare la sua bisnonna..."
Quell'uomo familiare continuò e ascoltavo, sapendo già tutto

"La luce della portineria era accesa, la porta dello sgabuzzino socchiusa, vidi poco, ma vidi tutto. Era con il fattorino, forse minorenne, spero solo che quel ragazzo non sapesse chiaramente cosa stava facendo..."
"Li feci uscire, cacciai il ragazzo e diedi tre pugni forti a Giuliano, non sul naso, ma la sua faccia, ne ebbe per tre mesi."
Ora capivo tanto.
"Quest'episodio non venne mai alla luce, tutta la stabilità della nostra famiglia, emotiva, finanziaria, l'accordo tra le donne, si basava sulla simulazione di un rapporto disteso tra me e lui, lo sapevamo e avremmo vomitato piuttosto che stringerci la mano, ma ce la stringemmo comunque, in vari modi"

"Non avevo mai capito le origini di tanto rancore, lei l'hai sempre avuto in pugno, almeno mentalmente."
Perché queste famiglie bruciano dall'interno? Dovrei scovare la rabbia dentro il cuore della mia stirpe e farla scontrare con la mia in un luogo neutrale, un sogno, come questo.

"Si, si vergognava, e non sopportava di non tenere il timone, era un galletto da pollaio, un fascista da quattro soldi, talmente nero da inzaccherare persino le lenzuola in cui dormiva."
Indicò il pacco, col suo dito, grosso come tre dei miei.
"Queste carte la condurranno da un notaio e un amico, l'avvocato Benini, di Ravenna e Bologna, forse incontrerà lui, forse il figlio Gianluca, ma hanno un diario, nei loro archivi, lo lasciai io nel 1992."
"Matteo, un diario di sua bisnonna Ada, originale. La nonna ha tenuto annotazioni, bollette, fatture, tutto contro suo zio e sua figlia. Segua le tracce, tutto sta diversamente da come appare e deve portare i documenti alle persone che le indico."
Il testimone è passato, lo afferro tra le dita, questa carta è il mandato.

"Mi faccia un piacere, un grosso piacere, abbracci Adriana, le dica che oltre al buio le cose non stanno come pensate, capiamo poco, fa parte del tutto, sa...il disegno o quelle balle lì. Sappia solo che nessuna religione, nessun credo sa quello che sto per dirle."
La vita è davvero fine a sé stessa, finiamo e basta, un bel giorno, restano solo le azioni, i contatti, siamo oggetti appena dipinti che lasciano macchie ovunque, dove ci appoggiamo, dove ci sediamo, poi restano solo quelle tracce. senza malinconia o gioia, restano.
Mi sento ancora su quel cavallino, trainato a corda, ma ho trent'anni, trent'anni, cazzo! E devo muovermi, le cose sfuggono e passano accanto. I miei cari sono quelle lepri che fuggono a rintanarsi sotto la neve, devo fotografarli in tempo e dire loro tutto quello che posso. Non ho la più vaga idea di che ore siano.
"Prenda questa guerra, ad esempio, chi corre contro il nemico non pensa che non riuscirà a sparare, verrà colpito ancora prima di aver concepito un movimento, in fondo, in cuor suo, lo sa bene, ma corre all'assalto comunque"
"Nessuno parla della morte come stato di paura, di non sapere dove si è, cerchiamo di rassicurarci su qualcosa che non sappiamo. Natura umana...patetica, pratica, resistente... Guardi là, ad esempio..."
Indica un punto lontano, mi perdo nella direzione, Attilio, mio nonno, il giovane soldato, non esiste più.
E mi vengono in mente quei fiori arancioni, una cascata che scendeva sul muro davanti alla finestra di nonna, non profumavano, ma li raccoglievo e ne staccavo solo un pezzetto coi denti, quello posteriore, era dolce, facendo attenzione che non ci fosse dentro una vespa.
Sono solo, quanto tempo è passato non lo so, ma mi prende una paura fottuta della morte, dei soldati nemici appostati nella neve, mi aspetto una pallottola.
"Chi mi vuole mettere una pallottola in testa? Sono qui!" urlo
Non rispondono, non salta neppure una lepre. Potresti essere dietro al primo pino, al cespuglio di pungitopo, tu, Nemico Totale, morte in persona, in divisa troppo grande e sgualcita. Potresti essere in qualunque momento e sempre.
Per uno come me, che voleva volare con la fantasia, tutto questo è troppo, lontano si ferma un camion, la corsa non torna più indietro.
Devo tornare a quel rifugio che ho visto venendo, con le finestre illuminate, mi mette paura, ma, Dio, se devo tornarci.

domenica 4 marzo 2012

Cassetto n°22


..Luigi fa l'operaio...ha un'utilitaria vecchia, un telefonino vecchio che tiene nella tasca dei pantaloni, fuma MS, si veste con abiti di poco costo. Frequenta sempre i soliti posti. Appena arriva ordina un caffè corretto e poi un bicchiere di vino rosso, ma quello da poco.
Ha qualche amichetta fedele, donne come lui, senza cultura e sempre con addosso odore di sigaretta e di un profumo da quattro soldi. Gli regalano un corpo appassito dal pane secco, dal vino nel cartone, dalle sigarette e dal conto in banca in rosso. Le amiche di Luigi puliscono gli uffici, lavano i vetri dei negozi, fanno la spesa al mercato e la sera si concedono senza timore perchè ormai da perdere non hanno più niente.
Il marito se ne è andato, la fabbrica dove lavoravano ha chiuso, il figlio si è sposato.
Marzia rammenda una maglietta scucita in una manica. Piega i calzini e le mutande con una meccanica ormai collaudata. Non si sbaglia più.
La sua vita è come un paio di scarpe comprate tanti anni prima durante il periodo dei saldi. Non sono belle, non sono firmate, ma comode, discrete e dignitose.
Le mette ormai tutti i giorni. Le infila senza nemmeno slacciarle. Ormai hanno preso anche l'incurvatura dell'alluce. Sono un piccolo e caldo rifugio che oramai ha la sua forma.
Il problema unico sorge quando le si gonfiano i piedi, dopo una giornata di lavoro e non vede l'ora di toglierle.
Marzia è stanca...come i suoi piedi gonfi dentro a quelle vecchie scarpe.
Accende la tv. Sul terzo c'è Chi l'ha visto. Luigi non tornerà presto. Ha il turno di notte (così lui le ha raccontato).
Marzia è tranquilla. Ha tolto le scarpe e ha le gambe stese sul divano.
Deve riposare perchè arriverà presto mattina e l'obbligo di indossare di nuovo quelle scarpe...

D.