lunedì 22 settembre 2014

Cassetto n°139

linea che brucia, tu lo sai cosa è successo?
erano coltellate, Pietro, solo coltelli
e mi hanno preso?
no, ti giuro che non ti hanno preso
gli amici?
scappati
ho freddo
sei qui da ore, dormivi
ehi, allora mi alzo
no aspetta, aspetta un pò di caldo
allora non mi dici la verità
non ne hai bisogno, sono qui io
qui dove?
dodici centimetri, nel tuo cranio
c'è molto bianco
siamo nell'acqua, Pietro
non bagna
non deve bagnare, deve scorrere
io volevo dormire per sempre
no tu volevi un vento che diventasse eterno
io lo so che lo sai cos'ho
che presunzione, capire le cose
ti dò il permesso, dimmelo
non lo so
quella roba sparsa per terra, cos'è?
è la tua testa Pietro
il caldo non arriva
so che arriva
un cuore che batte?
non serve
libero?
libero


sabato 13 settembre 2014

Cassetto n°138

Crescevamo così, insieme, nella miseria più nera e nella fatica: io e Giannino, poveri in tutto e scapoli, scapoli delle stagioni passate a lavorare una campagna fredda e desertica. Il raccolto sempre scarso e il risparmio, su tutto, risparmio sul risparmio del risparmio. Non ci eravamo potuti sposare, non c'erano le scarpe giuste e poi costava tutto troppo e una donna levava tempo al lavoro.
Mezz'ora fa è passato Dante, ha messo la macchina sotto la mia finestra e, senza neanche spegnere il motore, me l'ha detto: Giannino si è impiccato, pare, ad una trave del garage. Non un biglietto, nessuno l'aveva sentito e doveva ancora raccogliere l'uva. 
Per un periodo, Giannino, prima della  faccenda del carretto, era stato probabilmente il mio miglior amico.
I nostri possedimenti erano allineati sull'unica striscia di terra infertile tra Cesena e Bertinoro, posti su un'area inspiegabilmente rocciosa, tra la friabile terra della Romagna, un'antica linea di centuriazione romana, che proprio i nostri avi avevano, per disgrazia, pensato di abitare.
Magro, più alto di me, mani grandi e nocche usate dagli attrezzi, Giannino, figlio di Renzo, abbronzatissimo nei suoi sessant'anni di rinunce, indossava sempre e solo un maglione di lana verde. Il caldo è una condizione mentale, la sua frase preferita, seguita da un bello sputo diretto sul culo di uno dei miei poveri gatti, di solito quello grigio, che aveva avuto un problema alla nascita.
Mi ricordo di quella volta che pedalò di rabbia verso casa mia per chiedermi il carretto. Anche se stavamo a diversi  chilometri, lui veniva solo in bici - la Panda la uso solo per andare a Cesena, non deve superare i seimila chilometri, diceva, o non me la valutano niente.
Alla gente di qua non piace chiedere la roba in prestito, se lo fa, il peso dell'onere resta per anni un peso che schiaccia le coscienze, per questo era nervoso.
Frenò di taglio sull'aia del podere, scese, puntandomi secco, con un dito che indicava dietro la casa:
- ...ho tolto la vigna!
- Ma bravo
- Ce l'hai ancora quel carretto, quello di tuo babbo?
- Si, è là, sta dietro al Landini
- Mi vorrebbe per un lavoro quel carretto
- Ah prenditelo pure, lo attacchi al Same e te lo porti via, mi fai un favore

Ora, una roba vecchia, da buttare, assume, nell'ottica del contadino, il valore intrinseco del tempo e dell'uso già fatto: è una cosa affidabile, immediatamente, una cosa "buona"
Fu un'idea ardita, la mia: l'impulso di cedere il carretto a Giannino, ma ero nervoso per i peschi, che si ammalavano tutti e per il gran umido, che mi faceva scrocchiare le ginocchia. Troppa pioggia e la mia testaccia.
Il carretto era più unico che raro, in realtà, sia per dimensioni, sia per abilità ingegneristica, Giannino, che scemo non era, ci girava intorno, mani dietro la schiena, i peli della sopracciglia fin davanti agli occhi.
- ...e come lo sposto sto canchero?
Le ruote sfonde, le assi marce e tarlate, ma Giannino, che scemo non era, ne intuiva il valore: sotto quello scempio, infatti, sottili tubi in ferro non ancora arrugginiti, saldature fini, precise come un ricamo, innesti perfetti. Meccanica di una volta, quando, di roba, se ne poteva fare poca e dovevi farla bene per forza..
La sensazione rimase in sordina, negata prima di tutto a me stesso, ma fu quella sera, a cena, alle cinque e mezza, mentre la Venier rideva come un'oca, spaparanzata sulla poltroncina rossa di Domenica In, che mi resi conto dell'infame sventura che mi ero tirato addosso.
Quel carretto mi serviva.
Poi, inquadrarono Giucas Casella.
Il carretto mi sembrò, in un istante, l'unica cosa dotata di un un senso, l'unico vero ponte, adulto ed affidabile, col vecchio mondo di mio padre. Anche da un punto di vista estetico, tutto il giardino avrebbe perso molto, per non pensare che ci pisciavo contro, ormai, da trent'anni.
Era dura, rimangiarsi la parola data, a lui, che a queste cose ci guardava. Lasciai sprofondare il cucchiaio nei fagioli, si perse col mio appetito. Pensai a Giannino, che, certo, scemo non era.
Rancore e tristezza, mentre i gatti, sotto la finestra, arruffati, si azzuffavano per leccare per primi una scatoletta di tonno vuota. Lanciai di sotto l'elenco telefonico di Forlì Cesena, beccando in testa quello grigio, il meno simpatico.
Un bel problema: Giannino era uno serio, lascia stare che non avesse il telefono in casa e vivesse senza pavimento, coi polli in salotto, per Giannino nutrivo un profondo, stratificato rispetto.
La notte non chiusi occhio, sarebbe arrivato domani, alle sei e mezza, col suo bel trattorino FIAT arancione, a portarmi via quel che era mio.

Il rumore del flessibile, sui tubi, incideva la notte, qualche scintilla, speravo di non rovinare nulla, mente sezionavo i tubi del carretto, separando quello che l'uomo aveva unito, trent'anni prima. Raccolsi i tubi accoppiandoli secondo le lunghezze, li accantonai nella rimessa le assi le bruciai nel fosso, ormai inutili. Ora il carretto non era più tanto imponente.
Feci rotolare le quattro grosse ruote dentro la stalla, due nel magazzino, due tra i polli. Ogni pezzo, raccordo, vite, rondella, venne suddiviso in cassette di legno secondo un ordine preciso, che catalogavo nella mia memoria. Solo alle cinque e mezza, goloso del lavoro fatto, mi regalai un bicchiere di sangiovese: ero un matto, ridevo, madido di sudore, davanti al sole che sorgeva, le mani sui fianchi, come il nostro duce.
Nessuno avrebbe più usato quel carretto, né l'avrebbe rimontato mai, era questo l'assurdo, che per tenerlo, avevo dovuto distruggerlo.
Puntuale come la bolletta, alle sei e un quarto, il trattore di Giannino imboccò il viale di casa.
Gli corsi incontro, mani nella testa:

- Fata roba, Giannino
- che è?
- Mi han rubato il carretto, stanotte
- ma chi?
- i rumeni ubriachi
- gli ubriachi?
- Ma si, dell'Est, a Lucio gli han fregato l'amaca, il mese scorso
- e sèl?
- Un quèl par riposès
- sa dit
- am spìs nà masa, ma mica par mè, an valeva un caz! Par te, par al tu viti...e tù lavor...

Giannino, dopo aver blaterato un pò, tra se e se, alzò la mano in un cenno mesto di saluto e, buttando la testa indietro, mise la retromarcia, si strofinava la manica del maglione sotto il naso, sembrava davvero preoccupato.
Sapevamo bene entrambi com'era andata, probabilmente si chiedeva come avessi potuto farlo in una sola notte, questa domanda inespressa segnò un distacco, fatto sta che non lo vidi più.
Io, dal canto mio, quasi soddisfatto di me, aprii una scatoletta ai gatti, e mentre portavo via quello grigio, che tanto non aveva appetito, decisi che mi sarei andato a fare, da lì a pochissimo, il secondo bicchierotto di vino.