venerdì 29 marzo 2013

Cassetto n°84

Ho costruito la mia vita attorno a tre cose: la mia fede cristiana, la dedizione al lavoro e la ricerca di Davide Breda. 
Ho messo tutto quello che restava di me nella ricerca di quest'uomo, un morto vivente, perché si potrebbe dire che Breda fosse morto nell'istante in cui sparò a mio padre. Avevo tredici anni, lui ventinove, celerino della Questura di Roma, il dito tremante sul grilletto e una motivata paura del destro di mio padre: ex pugile dilettante, che gli stava per rompere il naso.
Mio padre, rapinatore da tabaccheria e da pompe di benzina, era un tipo silenzioso, molto arido, ricordo tante passeggiate con lui, ad Ostia, a guardare le barchette e a pescare il fritto col bilancino, sempre fino al freddo della sera, fino al buio. Dovevo dirgli che, basta, volevo andarmene, ma non avevo paura, quel buio era il nostro legame, un bene semplice.
Non ho mai lasciato Roma, anzi il mio quartiere si è ristretto, progressivamente, a un paio di viuzze, la casa di due amici e la strada che porta al cinema, dove mi occupo della sala e biglietteria. Trenta chilometri, ogni sera, per tornare alla spiaggia, dove vivo, devo sentire le ruote della Panda 4x4 affondare nel limaccio, per sentirmi a casa.

-Due Philip Morris, Aldo e il caffè!
-Ah, niente tabacco oggi?
-no, niente tabacco oggi
- Si fa festa! -

- Fatti i cazzi tuoi, tabaccaio! - penso - Ho i miei motivi per festeggiare, ad esempio che ho legato Davide Breda a una colonna nella rimessa del mio capanno, fuori Ostia, in questo momento è in sedazione chirurgica. Non è stato facile, ma il tempo mi ha aiutato, saperlo aspettare, alla fine della sua pescata, con due amici svelti, mille euro a testa, nulla che non si dovesse dire.
Oggi lavoro come sempre, non dò nell'occhio e alle sette e mezza parto, vado a casa e lui si sveglierà, per domani, ventiquattr'ore di sonno, poi lo sfamo e comunque, domattina, gli spiego.
Dovreste sentire che rumore soffice fa uno scarponcino in pelle sotto le sterno di un uomo leggermente sovrappeso, beh fa un bel rumore!
- Tu credevi il tempo fosse una linea? Pensa che io credevo fosse un cerchio! -
- hmpfff -
- No, ci sbagliavamo entrambi, Davide, è un imbuto il tempo! E ora eccoci qui, succhiati dal suo giro, eccoci qua, tu, col Propofol in corpo, ed io, con questo rullino di foto da mostrarti! -
-......-
- Ma magari questa per dopo, perché non credo tu vorresti essere qui e neanche io, ti dico, neanche io dovevo essere qui! -
 - Io oggi sarei andato volentieri in città, a trovare mio padre, nel suo appartamentino, a parlare delle bollette troppo care, e a discutere di calcio. Hai capito di chi parlo? -
- Hmpffffff -
- Ma poi le cose van strane e ti trovi a farti delle domande, ti ci perdi nelle domande, poi capisci che le risposte non ti interessano neanche più. Vedi questo capanno? Ecco, qui dentro è dove sono morto! -
- Ossessione delle foto, gli spazi, i tempi, ossessione che mi ha portato a fotografare Luna Breda, la tua bambina, tante volte, circa una volta al giorno, negli ultimi tre anni. L'università, le amiche, la palestra, la conosco meglio di tutti, meglio del padre, di te, che non sai neppure che sia, quella ragazza! -
- Vedi, Davide, questo capanno è umile, ma si sta bene e mi sveglio con tutto quello che mi serve, e ora, per favore, guarda queste foto! -  
Mostro le foto del piccolo party che abbiamo organizzato ieri sera, al capanno qui di fianco, foto chiare, definite, ho comprato la Nikon apposta, perché fossero nitide.
I miei due amici albanesi, tanto rum, tante lame, una montagna di coca. Al centro dell'obiettivo sempre Luna, lei,  la protagonista, che si vede sempre meno, sparisce un po' per volta, palmo a palmo, con l'arrivo del sangue, la luce cala e sale la frenesia della droga mista all'alcol.
Mi sono rovinato, ho pagato tutto io. Il patto era che dopo bruciavamo tutto. Il capanno, le foto. Tutto. Poi anche i ragazzi albanesi, sono caduti, morti. 
è già un sacco vuoto, non reattivo, Davide Breda, mentre affondo la prima lama.
Mi dice che vuole vederne ancora, vuole vedere quelle foto che per lui sono l'unica cosa che non potrebbe essere stata, vuole vederle per provare a non credere, trovare un inganno, la prova della truffa.
Sono tutte vere.
- Ecco è qui, che finisce tutto, sei libero dall'aver ucciso mio padre ora sono te, io -

Ora prendo le mie cose e vi seguo, agenti, non preoccupatevi, non cercherò di scappare.

lunedì 25 marzo 2013

Cassetto n°83


- Quindi la mattina trova questi messaggi
- Non sono messaggi sono parole, crittogrammi
- E chi li scrive, lei?
- Si, li scrivo io, come le dicevo prima, li scrivo nel sonno...
- Nel sonno?
- Insomma dottore, vivo da solo, non sono pazzo! Mi sveglio con i muri tappezzati di scritte, dappertutto, dentro i libri negli scontrini sotto la tavoletta del water!
- Si direbbe sonnambulismo, grafomania...
- La calligrafia non è la mia, cioè è come la mia, ma più piccola, regolare, pare stampata!
- Spesso i gesti automatici sono sorprendentemente regolari e simmetrici, lo sa?
- Si, ma quella non è la mia mano!
- Ha dubbi che qualcuno entri a casa sua mentre dorme?
- No no, le dico si, di aver scritto io,  ma non l'ho scritto io, non coscientemente, almeno.
- Trova un senso, una continuità, nei messaggi?
- Ma perché deve interpretare? non sono messaggi, sono scritte! Solo scritte, codici!
- Anche dire codice è interpretare...
- Si ma cazzo, lo dico io! Lo saprò di cosa parlo!
- So di persone che percorrono brevi spazi, chiudono cassetti o ripetono gesti quotidiani, automatici, nel sonno, scrivere mai...
- No, io non mi sveglio con la tavola apparecchiata, dottore! Io mi sveglio con la scritta "qui l'inizio" in basso a destra, per ognuna delle mille pagine del Signore degli Anelli. Io mi sveglio con un intero volume di arte greca riempito di didascalie,  sotto le immagini: ponte di flusso, serpente di sassi, sentiero, cranio
- Prosegua...
- La cosa più incredibile mi è successa tre notti fa. Ero alla festa di laurea di un collega, alle due ero già a casa, con mezza bottiglia di sangiovese in corpo. Ricordo di aver pisciato contro una chiesa, era buio e appartato, mi spiego? Niente esibizionismi o cose del genere!
- Le scritte c'erano, la mattina?
- Si ed erano particolarmente strane e minacciose, erano come...circolari
- Può spiegarmi meglio...può?
- Si, diciamo che ogni scritta, questa volta, aveva un senso, abbozzato, indiretto, ma trovavo un fattore comune, il cerchio.
- Di che cerchio parla? 
- Non le ho tradotte, ma non erano nulla di buono, sarò un cretino, ma penso ad una busta che ricevetti
- Se lei lo crede, probabilmente è così..
- Erano scritte che venivano da altrove. Tutte le scritte prima, ho capito, avevano solo preparato la strada per ricordare. Una busta indirizzata a me, senza firma, un errore su di un foglio bianco, solo un cerchio. Forse ci avevano appoggiato una tazzina, che ne so. Ci  pensai per giorni, poi tutto svanì, nella quotidianità. Sono passati dieci anni, da allora.
- Nessuno l'aveva preparata, ad un accesso diretto!
- Accesso a cosa?
- Se è lei, a scrivere quelle cose, cosa non può dirsi?
- Ma le scritte…le trovo ovunque, anche a tre metri, sul soffitto,
- Non si preoccupi di come, pensi al perché, è una storia, la rispetti, le creda. Lei deve aver fatto qualcosa di cui deve parlarmi, in quel periodo.
- Mi parlano di un inizio,  tutto, alla partenza, il cerchio era nelle parole 
- La lettera, può ricordare altro?
- Non lo so, la trovai sul vialetto, dove ci lasciavano sempre la posta, era un giorno di sole e la carta era spessa, di qualità e pensai che fosse strano trovare una sola lettera e nessuna pubblicità, ecco cosa ricordo.

sabato 16 marzo 2013

Cassetto n°82


Era il nostro primo lavoretto e noi si provava ad alzarsi sempre prima, ma non c'era niente da fare, a qualunque ora si arrivasse, c'era sempre il gruppetto di sei, otto contadini, in assetto, a raccogliere l'uva.
-è questa l'ora di arrivare? Cosa avete fatto ieri sera, pugnette? -
Questo era il buongiorno per me e mio fratello, ogni mattina. Provammo, allora, ad arrivare alle sei, alle cinque  e mezza, alle cinque, ma erano sempre lì e avevano raccolto sempre un bel po' di roba, per già più di un'ora, a sentir loro.
Ogni volta battute, inchini e sberleffi, per dirci che eravamo segaioli, pivelli. 
Mi pare di aver pensato che in realtà quei tizi non andassero mai a casa, forse vivevano in quelle vigne.
Stare in questi posti era come partecipare a dei laboratori sociologici continui, ci sentivamo crescere dentro. C'erano quelli silenziosi, che macinavano cesti su cesti d'uva, macchine da raccolta che potevi solo guardarli in silenzio. Poi ti giravi un millesimo di secondo e avevano un MS accesa, in bocca: magia.
Altri non facevano praticamente nulla, le loro principali preoccupazioni erano Berlusconi, i ladri del governo e fare battute sulla moglie di Gianni, la Severina. 
Gran bella donna, questa Severina, dei bei tempi andati, si vociferava, avesse mantenuto oltre a buone eredità terriere anche una testa molto aperta, come le gambe, del resto.
Nella sua vita, a parte sposare la Severina, Gianni aveva sempre e solo raccolto frutta, era uno di quelli della sigaretta istantanea.
La caratteristica di Gianni era il suo enorme fisico, praticamente il connubio tra una quercia canadese e una di quelle statue sovietiche della propaganda comunista, il tutto con la pazienza ascetica di un felino. Gianni parlava pochissimo, i suoi erano quasi sempre benevoli consigli sul lavoro da svolgere, era stoico, nel sopportare battute e allusioni riguardanti i rapporti della moglie col medico di base, con l'assessore e perfino col vù cumprà del Conad.
Avevamo tutti paura di Gianni, per questo si cercava sempre di attaccar bottone, di non lasciarlo troppo solo, a rimuginare.
Niente, arrivò il giorno che io e mio fratello non andammo a raccogliere, credo fossi malato o non ne avevo voglia, non so. Il giorno dopo, arrivati ancora più tardi del solito, notammo un silenzio e una tensione surreale, subito venne Franco, a passarci le cesoie, ci disse quel che sapeva.
Alle sedici, il giorno prima, pare che Gianni avesse preso per il collo Bruno, nell'unico momento in cui quest'ultimo non stava parlando male della Severina. Pare, ci disse, che l'avesse trascinato, come un tappeto arrotolato, tra i peschi, nessuno si era mosso, nessuno lavorava. Fermi.
Arrivati in un luogo riparato, pare, l'avesse fatto inginocchiare e, tenendolo per i capelli, gli avesse mostrato, da vicino, il suo segreto più grande.
- se sento un'altra parola su mia moglie, su qualcuno della mia famiglia, questo te lo parcheggio in culo!-
Gli tirò fuori il cazzo, a pochi centimetri dalla faccia. Da sempre c'era una leggenda, su entrambi. Di Bruno si diceva che avesse avuto milletrecento donne, perlopiù sfruttando prestiti di auto di un amico carrozziere, che gli forniva sempre Jaguar e BMW, dalla sua carrozzeria. 
Gianni, invece, oltre che cornuto, si diceva che avesse un' appendice riproduttiva del diametro di un gancio da traino-trattori. Se questi fossero stati uomini rispettosi delle regole, Gianni avrebbe,  già da tempo, dovuto fare vedere quest'arnese a Federcaccia e Questura.
Dai racconti dei presenti, Bruno tornò dal frutteto barcollando, occhi vitrei, con un colorito che fece pensare che, forse, il diametro reale era di due ganci-rimorchio. Aveva subìto quello che gli esperti chiamano: "stress da arma puntata" una sindrome che di solito colpisce ostaggi di sequestri e rapine. Gianni si rimise a lavorare di buona lena, dopo aver aspirato l'ultimo tiro della sigaretta, lasciata appoggiata ad un ramo.
Presto la vendemmia finì, l'anno dopo io lavorai al mare, mio fratello in fabbrica, ma quel gruppo di vecchi catarrosi, intenti a insultare la reciproche mogli, mi rimase sempre caro.
Mi piace pensare, a volte, a Gianni, che, paziente e maestoso, scende dallo scaletto per raccogliere un grappolo più in alto, mi piace pensare anche a Bruno, forse meno allegro di prima, alla sua chioma impomatata e a quella fronte che trattiene, a stento, due gocce di sudore. 
Freddo.

giovedì 14 marzo 2013

Cassetto n°81


-e quindi se non è un'altra cosa cazzo ti succede, da quando?-
-io l'ho capito la mattina, venerdì. Hai presente quando eravamo stesi nel letto, eran le sette, sette e mezza, e stavamo lì che non ci saremmo più alzati? E io ti ho chiesto se mettevi su un caffè e tu mi hai detto si, ma tu fai il letto?-
-eh beh?-
-mi son fissato sulla tua spalla, mentre ti alzavi, hai una bellissima spalla, non fraintendermi, lo sai, ma ho visto proprio una bella spalla. Nulla di diverso a milioni di bellissime spalle nel mondo, ecco quando l'ho capito.-
-che cazzo c'entra la spalla?-
-è solo la prima cosa che ho visto, così, come potrebbe esser stata una gamba, un polpaccio, sarebbe stato diverso se fosse stato un polpaccio? Un polpaccio estraneo, liscio e sodo, ben depilato? No, non credo!-
-quindi non ti piaccio più, non provi più nulla?-
-guarda, sarebbe stato più facile metterla così, ma non è corretto, non ho mai detto di essermi stufato di guardarti le spalle, o il culo, o le tette o quel che vuoi, solo che era una bellissima spalla e basta!-
-ma io ho solo ventidue anni, sei uno stronzo, tutti mi sbavano dietro!-
-si, infatti, meglio dirtelo subito, tesoro mio, devi credere in te! Ma per me, venerdì, è stato come vedere la mia spalla, io amo la mia spalla, la curo, ma è la mia spalla, non le pago la cena-
-e io come dovrei reagire?-
-è proprio questo, amore, è incredibile quanto non me ne freghi niente, cioè, non vorrei tu soffrissi troppo, ma la mia analisi del problema, se si può parlare di analisi del problema è che stiamo ormai insieme da due anni, conosco ogni tuo buco molto meglio dei miei, li ho scopati, leccati, annusati, ci sono andato a cena, con quei buchi, ci ho speso qualche migliaio di euro, per loro, e a volte sono andato in farmacia, per loro.-
-oddio!-
-no, non piangere, è solo che quei tre buchi, fossero anche quattro o sette, hanno un potere ormai limitato su di me, li riconosco subito, come i vecchi amici che sorridono e sbattono il bicchiere sul bancone, mentre entro al bar, ma senza quella nostalgia, non so se capisci, senza quel cameratismo!-
-ma io ti amo-
-non fa alcuna differenza...-
-e quale sarebbe la differenza?-
-ce ne sarebbero a migliaia, tesoro, ma non impazzirci, davvero, nessuna ora cambierebbe qualcosa-
-tu mi stai allontanando, mi stai uccidendo, ecco cosa cerchi di fare, perché soffri più di me, mi stai ferendo deliberatamente-
-no, io sto deliberatamente cercando di dirti di prendere le tue cose da domani e di toglierti dai coglioni e dal mio appartamento, ti pago tre mesi di affitto in un altro posto!-
Potevo essere migliore alle sette e mezza di sera di  lunedì sette marzo duemilanove. Potevo essere meno concreto, starle comunque accanto, ancora qualche giorno, illuderla per poi deluderla pian piano, come succede con la pianta del terrazzo che amo meno, darle sempre meno acqua.
Avevo ventisette anni e poco per la testa, allora, non credo di essere mai più stato tanto veloce e onesto, non credo di essermi mai più sentito così in pari.

venerdì 8 marzo 2013

Cassetto n°80


Di certo non c'erano motivi per ridere, no, anzi, direi che avevo perso il sorriso da tre giorni. Nello specifico arrivai quella mattina al palazzo giallo della FreshMealsUnited SRL e vidi tre macchine parcheggiate: due grigie, una blu, ed erano auto costose, molto costose: vetri oscurati, arrivate da lontano, dai vertici. Non le avevo mai viste prima, il parcheggio della ditta eran pochi metri quadri, lo conoscevo a memoria, ci fumavo tre sigarette al giorno, e quelle macchine, non c'erano mai state.
Il signor A., fratello di B. e M., dipendente modello da nove anni, smise di parlare a me e a tutto l'ufficio, il giorno in cui, andando a difendere i suoi colleghi a una manifestazione, trovò sotto la sua auto un bigliettino bianco, c'era scritto "boom". Decisamente un avvertimento.
Dopo un lungo lasso di tempo riprese a ridere…ma anche per lui, come per il ragioner F, due mesi dopo, nulla fu  più come prima.
Il ragionier F. che era oltremodo una persona civilissima, aveva solo fatto notare che la macchinetta del caffè non dava le palettine, forse il suo tono era stato leggermente sarcastico, ma gli era stato ribadito che la macchina non metteva palettine solo nel caffè amaro. Lui, però, aveva insistito: le palettine non venivano giù e basta, non che questa cosa per lui fosse un problema, intendeva solo suggerire, a chi di dovere, di segnalare la cosa alla ditta appaltatrice.
Questo ragionier F era sparito dalla circolazione in tutti gli uffici FreshMealsUnited SRL in una settimana, lui e la sua onesta station wagon di importazione russa, si dissolti, svaniti i legami con la FreshMealsUnited SRL.
Ora era il mio turno, perché, altrimenti, quelle tre macchine non sarebbero state parcheggiate sotto la ditta. Se solo non avessi obiettato sul packaging del nuovo snack sportivo, lo Slancio Protonico. In una riunione ufficiale del marketing, tre giorni prima, avevamo ricevuto ognuno una confezione prova-lancio della barretta energetica in questione. Eravamo parte costituente della prova-packaging, cioè si valutavano parametri complessi quali accostamento cromatico, grafica, tattilità del materiale di confezionamento, eccetera.
Nelle multinazionali c'è questa fissazione per cui tutti i reparti coinvolti nella produzione devono, non solo conoscere il prodotto, ma amarlo, esserne intimamente e ossessivamente legati e credere che sia il miglior acquisto per sé e per la propria famiglia, quello che sceglierebbero dallo scaffale in modo automatico, preconscio.
In altre stanze del piano del palazzo, proprietà della FreshMealsUnited SRL, si tenevano contemporaneamente le prove di gusto e le prove di desiderabilità sociale.
A dirla tutta ero stato assunto sei mesi prima come aiutante grafico, ma offrivo anche consulenza al reparto marketing e pubblicità, quella pozza di piscio di ufficio era la cosa più vicina ad un trampolino di lancio che mi si fosse mai presentata nei venticinque anni di melma della mia esistenza fino ad allora. Quello stesso sei marzo, intorno alle undici e dodici, avevo fatto notare come l'atleta raffigurato nell'atto di strappare coi denti l'involucro della barretta super energetica Slancio Protonico, non avesse minimamente l'espressione di un ciclista ad un tornante a milletrecento metri di altitudine.
Più che altro l'atleta in questione pareva il membro di un qualche club che avesse incontrato un socio all'uscita di un cinema porno. Mi ricordo di aver detto proprio così: "il socio di club ornitologico, che cerca un'impassibilità pressoché totale per non essere riconosciuto". Poi sorrisi, se non sbaglio, quello doveva essere il mio punto di svolta, congiunsi le mani dietro la testa, aspettai. 
Il capoprogetto tacque per due minuti, direi quasi tre, poi strinse un paio delle soffici barrette nel pugno ed esplose vomitando di aver scelto la foto proprio lui, personalmente, e che era dispiaciuto della mia frase, perché l'atleta era il promettente nipote ciclista: D. A. Winstrol, diciassette anni. Bevve un sorso d'acqua e aggiunse che la foto l'aveva scattata in un sorprendete slancio fotografico la nipotina, sorella minore di D. A.: l'adorabile S. Winstrol, sei anni, prima volta con la Nikon in mano, sul monte Berufsberkleidung, nel Weimar, con un'esposizione perfetta, nonostante la giornata di forte sole. 
Smisi di ridere, le mie mani si incollarono dietro la testa, fondendosi in uno spasmo nervoso, non ho più riso davvero, da quel pomeriggio.
Ricordo solo che, uscito dal gruppo di valutazione,  ebbi come l'impressione che la verità mi avesse allontanato ancora una volta dalla felicità. Quel cuginetto masturbatore compulsivo ciclista, con la sua faccia di merda, e la solerte giovane sorellina, Diane Arbus in erba del cazzo, spazzarono via il mio metodico lavoro di sei mesi per farmi trovare sorridente alle macchinette del caffè, sempre pronto alle battute cameratesche sulla percentuale di negri nel calcio italiano, eccetera. 
Ero in odore di contratto serio, ma non più, ora ero di nuovo carne da macello. Mi avviai per il vialetto grondante di liquami di cassonetto che portava alla mia utilitaria, non potevo ancora usufruire del parcheggino privato dei soci. Ancora non sapevo di aver lasciato le luci accese, e che la macchina non sarebbe partita.