domenica 21 aprile 2013

Cassetto n°88


Siamo nel parco della clinica, io, ormai assunto e rilassato e il mio nuovo capo, che versa.
Siamo in quella fase in cui c'è abbastanza confidenza per ubriacarsi per concludere, rilassati, il colloquio.
Lui mi chiede:
- Cosa ti affascina della psichiatria, oltre alla mancanza di igiene e alla notevole presa sulle giovani pazienti? - 
- La completa mancanza di oggettività del potere, direi -
- Falliamo più degli ortopedici, non meno degli oncologi e senz'altro guadagniamo meno di qualsiasi altro medico sulla terra -
Sorrido, è verissimo.
- Altro amaro? -
- Si, grazie, un poco, ma poi abbiamo quella cosa, come la chiameresti, Matteo? -
- Bene, dottore, io la chiamerei la calamita! -
- Ah bravissimo, la calamita! Ecco abbiamo la calamita! -
- è la mia definizione, dottore - dissi, assumendo un postura più decente, dato che stavo lentamente scivolando lungo la sedia da giardino
- Non credo che avresti scelto di presentarti qui, in questa prestigiosa clinica, proprio ieri, se non credessi di esser bravo -
- Io lo credo molto, dottore -
Il dottore convive da cinque anni con una forma di paralisi. Ha la gamba sinistra bloccata al ginocchio, il braccio sinistro bloccato e piegato al gomito, é duro d'orecchi, sta perdendo la vista. Il suo primogenito non gli parla, vive d'espedienti in centro a Bologna, anche se guida un Mini Cooper nera, nuova fiammante. 
In questo momento il dottore soffre particolarmente a causa della sua villa, che è andata a fuoco qualche mese fa, occasione in cui ha perso gran parte della sua collezione. Una quantità di arazzi, pellami e attrezzature medievali da tortura, bruciati, un cortocircuito, i faretti della sala.
- Cosa ti lascia il paziente, cosa ti lascia attaccato alla calamita?
- Praticamente tutto sé stesso, dottore - rutto in silenzio, acido in bocca.
- No! Il paziente non ti lascia nulla!- lancia la sigaretta nel bellissimo prato, ignorando il portacenere in cristallo, vuoto, davanti a noi - Ti toglie tutto, anche la calamita, non ti lascia un cazzo! - 
- Eppure, dottore, ho preso molto, da tutti i miei pazienti - 
- Queste cazzate faran presa sui professori o su qualche figa che rimorchi in palestra, qua puoi pure cambiare registro! -
- Eppure, dopo la doccia, mi asciugo ancora come il mio primo paziente, Gilberto, le sue stesse procedure… -
- Balle! Ti sei perso, confuso nelle loro storie, ragazzo! Voglio più professionalità, qua dentro, e più tenuta agli alcolici, se vuoi far strada! -
Tra una frase  e l'altra, il dottore, borbotta, credo che imprechi Dio, in un silenzioso monologo ininterrotto, con il generatore di tanto male.
- Ti piacciono le lame, le spade? -
- Si, direi davvero di si, soprattutto quelle medievali! -
- Le armi africane sono le più belle, ne ho molte a casa, potrei mostrartele, le presi in Togo, da studente, mi pagavo appena le sigarette -
- Mi spiace per la sua collezione, ho saputo ieri e…-
- Qui, con le infermiere, ci si diverte, comunque, ti avverto ragazzo! Nel caso tu sia sposato o convivente…-
- Non son sposato, ma ho una ragazza! -
- Molto bravo, ma se non le molesti almeno un po', qualcuno potrebbe offendersi -
- E chi? -
- Io, ad esempio, mi raccomando, ci tengo ragazzo. Dà loro qualche palpatina! - 
Il cellulare continua a vibrare, nella tasca. Chiedo scusa al dottore, mentre versa ancora amaro, mi allontano dal tavolino, esco dal gazebo, l'erba è soffice, la clinica, una villa vittoriana, persa tra i cipressi proietta geometrie d'ombra sul prato. Tira il venticello di aprile.
- Si, pronto, mi han preso, certo, amore! Ma son ubriaco e torno tardi, questo ne ha per molto, sono col professore! -
Mi rendo conto solo adesso di quanto ho bevuto, gira la testa, ho quelle vertigini che vengono quando ci si alza in piedi all'improvviso.
Mi giro, vedo il professore che osserva silenzioso le nuvole di fumo, ride, sembra un gioco, sembra un pazzo.
- Vieni qua! Sai cosa ho visto fare una volta, a una puttana con delle freccette, in un bordello thailandese? -
I discorsi sui soldi possono aspettare, spengo il telefono, è un'occasione speciale.

lunedì 15 aprile 2013

Cassetto n°87

Mezza parte dell'orto è tutta da vangare, sputo a terra, per far crescere meglio fave e piselli, ma qua ci sarà da spezzare qualche buon manico di vanga e da scorticare almeno un paio di mani.
Era già abbastanza dura, prima, non ci voleva questa. Lo zio Renzo, quello dei tre fratelli con il lavoro migliore, è finito sotto il camion da cui stava sbadilando asfalto. Era ancora cosciente, quando l'han tirato fuori, da sotto il rullo compressore, una gamba stritolata, l'altra staccata, proprio. Per lavoro posava su per i monti del Verghereto, la nostra bella E-45: la Ravenna-Orte, la strada che taglia Emilia Romagna, Toscana e Lazio.
Con questo zio c'era un rapporto strano, tipo quello che si ha con le superstar, ci si tiene tanto e le si conosce meglio di tutti, poi si finisce a credere che un pò ci conoscano anche loro, per osmosi. Lui per me era, a tutti gli effetti, un padre ideale. Dicevano che avesse tre lavori, pochissimo in Italia, nessuna donna fissa e faceva dei viaggi misteriosi, in Africa, in solitaria.
Mai saputo altro, il resto era tutta fantasia, quella che avevo proiettato su questo soggetto, fantasie che avevo in abbondanza e che si trovavano a vagabondare, qua, dove c'è il nulla, in collina.
Pensai molto al suo dolore, una qualità di dolore che non potevo ancora capire e che, allora, mi configuravo come puramente corporeo. Poi facevo anche pensieri più assurdi: uno senza gambe perderà pur almeno venti chili? Ora avevo uno zio da 45 chili? Avevo un zio che pesava meno di me, a tredici anni.
Mi stupiva pure che la casa, con tutta quella sconfitta nell'aria, con quella pesantezza di vivere dello zio amputato nel letto, che quella casa, dicevo, sopportasse tutto senza alcun accenno di cambiamento, di mutazione. Ad esempio i due grandi noci, all'ingresso, erano ancora fermi ed inutili.
Ne ho sopportata di merda, prima di scrivere questa roba, ma capite che, se la vita di quel periodo dovesse essere descritta in una parola, ora dovrebbe essere mutazione.
Dopo una settimana, le cose andavano ancora peggio: Renzo aveva un'infezione, era all'ospedale, lottava, lo operavano, se la cavava,  guariva un pò, si adattava alle protesi, le accettava, conviveva con la rabbia, se ne tirava fuori. 
Ora siamo qui, devo sistemare questo pezzettaccio di terra, scrivo a fatica, sopportando le urla dei bambini che giocano a calcio. Mi ricordo che, quando giocavo io, l'erba si maciullava sull'orlo dei jeans, tingendoli di verde, mia madre passava i pomeriggi, a ripulirli.
Il vicino usciva a sistemare l'orto e abbassava la testa, non sapeva che dire e zappa la terra, imbarazzato
- Guardi che mica è colpa sua! - gli avrei detto - se zio Renzo è finito sotto il rullo! - Lo vedevo che voleva attaccar bottone ma che proprio non ce la faceva. C'è sempre il tipo impacciato, che non vuol disturbare, come c'è sempre quello a suo agio, nella crisi, che pare quasi aspetti qualche disgrazia per poter esibire il suo sguardo contrito e le frasi preformate sugli avvocati e sulla fortuna, di essere, almeno, ancora vivi. 
Merda, vicinaglia, ipocriti, falliti, maleducati e schivi! Piegati dalla miseria e dalla terra! Mi allontanai da casa, per un caffè, ma anche il bar era chiuso, di domenica, solo qualche ritardato che passeggiava nel parco, a uno avevan regalato un cagnolino.
E io volevo uccidermi, ucciderli: i ritardati e i cagnolini, per esser tutti testimoni di questo scempio.

Cazzo io avevo le gambe, ci camminavo, proprio allora, mentre buttavo giù questi appunti, e non ci pensavo. "Le gambe sono sprecate, se ci si siede sopra" scriveva Thoreau, ma anche se le lasci, come dono all'ANAS, per poi trovarti un avvocato di merda, che ci ricava sopra appena il necessario per le cure e per rifare due stanze della vecchia casa. Ma cosa vuoi, qua siam tutti contadini! Qua, già va bene, se ci pagano qualcosa, che non ci siamo stati abituati, ad ottenere, e neanche a pretendere.
Renzo, però, l'avevo sempre visto diverso, sulle sue gambe, diretto altrove. Fatico ad abituarmi, non riesco ancora a pensarlo senza.
E' facile spaventarsi anche per meno, comunque sempre più facile, quando capisci che razza di beffa sia tutto.

domenica 7 aprile 2013

Cassetto n°86


-Un dente cariato-

Nell'estate del 1993, il fatto di essere quasi affogato al mare, spinse i miei genitori a iscrivermi ad un week-end sull'Appennino con la parrocchia di S. Agostino. Oltre al prete, figura nebbiosa, narcotizzato nei primi posti del pulmino  aziendale pubblico, c'erano una decina di entusiasti ragazzi più grandi di me, giovani che sfruttavano un passaggio per trascorrere il fine settimana gratuito sui monti. Unico obbligo per loro: sorbirsi noi piccoli impiastri. 
Arrivammo a Bagno di Romagna un afoso venerdì mattina, qualcuno aveva già vomitato, altri stavano iniziando a chiedersi quanto mancasse a domenica sera. Io no, ero ottimista, pensavo agli abeti conici e alle pigre trote salmonate nelle pozze d'acqua fresca, speravo in grigliate di carne e racconti paurosi in cerchio. Avremmo soggiornato in tende messe a disposizione dalla parrocchia presso il camping Ali d'Oro. Nome che, abbinato al fattore-chiesa, avrebbe già dovuto dirmi qualcosa, ma ero comunque felice.  
Il più economico e caldo buco della valle del torrente Rabbi era a nostra completa ed assoluta disposizione. No, direi proprio di no! 
Da subito le mie aspettative di due giorni di pesca e giochi si stravolsero. Eravamo sostanzialmente rinchiusi in un serraglio costruito con reti per polli, le tende erano vecchie canadesi dell'esercito egiziano, dentro non filtrava un'anima d'aria: forni. I ragazzi più grandi assunsero da subito una leadership basata sulla violenza e sulla sopraffazione. Individuarono alcuni capri espiatori per dare lezioni morali al nostro gruppo, una trentina di bambini sui dodici anni. I motivi per scatenare la loro rabbia erano praticamente assurdi, potevano essere gli occhiali storti o anche molto meno, comunque, si veniva colpiti arbitrariamente e in modo ciclico. Il posto era un lager, ci era concesso riunirci solo in punti stabiliti e in orari prefissati, dovevamo chiedere il permesso per parlare, spostarci, andare in bagno. Il resto del tempo era dedicato a compiti da fare in tenda, riassunti di brevi brani fotocopiati tratti dal Nuovo ed Antico Testamento. Brani che, anziché essere raccolti o corretti, venivano buttati nella brace del barbecue, direttamente, non appena li consegnavamo.
Il secondo motivo della mia partecipazione alla gita, oltre alla momentanea fobia dell'acqua salata, era Marta, una mia vicina di casa. Marta, per le fattezze esotiche, era già conosciuta come una delle bambine più carine sulla piazza, a parte il fatto che la carnagione scura e i capelli corvini corrispondevano ad una sorprendente e folta peluria sugli avambracci. Cosa che non mi importava, se teneva le maniche lunghe sentivo che avrei potuto amarla tutta la vita. Marta, ovviamente, non mi cagava, se non per alcune feste a casa mia, occasioni piuttosto deludenti e formali, in verità, non mi aveva mai parlato. Lei stravedeva per Mario. Sedicenne di colore, coi dreadlock, chitarrista in erba, pittore in erba, in erba su tutto. Mario riforniva tutto il gruppo degli educatori di sostanze e arrotolati farciti che addolcivano l'aria estiva con voluminose zaffate dietro le loro tende. Ogni mezz'ora qualcuno di loro chiamava qualcun'altro e ci si dava il cambio per andare sul retro, a fumare. Marta cominciò a frequentare il retrotenda molto spesso, perciò cercai di concentrarmi su altro, senza riuscirci. Come sottofondo a questo dramma personale, una radio a pile AIWA, trasmetteva ininterrottamente canti religiosi e schitarrate inneggianti a pecore smarrite e terre ormai palesemente sante, proprio sotto l'unica finestrella della mia canadese.  
La realtà, là al camping Ali d'Oro, ti fissava dritto negli occhi e il suo volto era questo: mosche, sudore e polvere. 
Mentre i sedicenni ruotavano tutti intorno a Mario, un po' per carisma, un po' per necessità, io provavo per lui una reazione mista di invidia-ammirazione. Ogni tanto, qualcuno di loro, emergendo da quella nube tossica con gli occhi iniettati di sangue, ci fissava, come per strozzarci, poi si lasciava partire l''urlo: "Gesù è con voi! Gioite infanti!" Io credevo di essere finito in un incubo, dal mio mondo di piccole passioni e lenti rituali pomeridiani, ero atterrato in un recinto senza regole, piantato come un dente cariato nel più brullo Appennino emiliano-romagnolo. Allora non avevamo i cellulari e, comunque, ce lo avrebbero requisito, quell'esperienza mi servì, almeno momentaneamente, ad apprezzare di più casa mia.
Domenica mattina Don Sergio celebrò una stentorea messa improvvisata al centro del campo, dentro un cerchio scavato nella polvere. Noi eravamo tutti accovacciati intorno, davanti gli educatori, dietro noi marmocchi. L'altare era un banco di scuola con la statua in gesso della Madonna e un lurido panno in raso bianco ricamato a colombe e fiori rossi. Don Sergio, grasso e pio di lunghi inverni in canonica, sudava copiosamente ai trenta gradi del sole montano, e le due pubescenti educatrici, davanti a me, non smettevano di parlare un attimo. Questo è quello che ricordo del loro discorso, bisbigliato, che, praticamente, ruotava solo attorno ad un tema:
- Non è che i ciccioni mi facciano schifo, odio il loro modo di respirare -
- ah, si? -
Chiara, figlia del noto penalista Gualdi, si stava accendendo una sigaretta, accanto a lei, Giusy, truccatrice disoccupata, che cercava con modesto successo, di resistere all'impulso di rollarsi una sigaretta a sua volta.
- Oggi, a colazione, ero vicina al prete e ansimava, sembrava stesse facendo le scale, ma era semplicemente lì, che guardava il suo caffè.. -  
- si, penso di capire cosa intendi…-
- è un po' come se stessero sempre scopando, sono affannati, sudati, maleodoranti -
- e se tu ne incontrassi uno estremamente intelligente, voglio dire una mente fuori dalla media? -
- spiegati meglio! - Chiara spense il mozzicone.
- cioè mettiamo che conosci uno scrittore, un cantautore, uno che ha viaggiato, che ha solo qualche chilo in più? -
- dipende da quanto è grasso, Giusy! -
- si, uno che a parte il peso rappresenti il tuo uomo ideale, uno che vada oltre le banali leggi dell'estetica occidentale, consapevole e menefreghista del sistema costruito attorno a lui -
- non lo so, non mi è mai successo -
- io credo che tu sia estremamente limitata, Chiara, e non lo dico per offenderti, solo credo che certi genere di ragionamenti, semplicemente, non li farai mai! -
- Sei tu ad essere un'ipocrita, Giusy! Il tuo ragazzo non mi pare un ciccione di sto cazzo: Riccardo, il campione di nuoto e baseball! -
- d'accordo, ma, vedi, ti stai difendendo! -
- no, dico solo che se, al mare, dovessi abbracciarti a un cinghiale peloso e sudato che ti sbuffa in faccia, magari faresti meno la filosofa della situazione!  -
- ti difendi estremizzando, non hai argomenti! -
- no, li ho! E alcuni riguardano il fatto che sei una buonista e sinistroide anorgasmica! -
- Sempre sia lodato, AMEN! -
Poi la messa finì, tutti in piedi e cose del genere…
Nel pomeriggio stavo fermo a fissare i colli, davanti alla mia tenda, quando  Mario mi prese da parte. Aveva dei modi comunque gentili e disponibili per il suo status di semidio. 
- ti ho osservato, ragazzo, e sei uno che sa stare sulle sue, non dai nell'occhio! -
Io, che non ero poi una sega totale nei rapporti coi grandi, mi sbilanciai:
- ah grazie! So solamente a chi non devo pestare i piedi! -
Questa era, ovviamente, una frase riciclata da film spazzatura di Stallone, tipo sorvegliato speciale o simili.
-senti, oggi pomeriggio ci sarà un'ispezione, lo so da fonti sicure, il prete si è incazzato e tu dovresti tenermi questo!-
Mi porse in mano un pacchetto in carta d'alluminio grosso come un panetto di burro, era caldo perché, credo, lo teneva sempre in tasca, o nelle mutande
- Ora quello che hai in mano, è il mio reddito, la mia paga ed il mio futuro a breve termine, non ti controlleranno,  se tu taci, io te ne sarò grato -
 - si, ma dove lo metto? -
- hanno chiuso le reti, non si entra e non si esce dal campo, mettilo dove non lo troveranno! -
Nell'ora successiva ispettori più grandi, venuti appositamente dalla sede centrale, tirarono all'aria il misero campo, perquisirono borse e zaini, fecero interrogatori incrociati agli educatori, cercavano di mettere tutti contro tutti con le tecnica dello sfinimento emotivo. Vidi molti duri piangere lacrime amare come agnelli senza mamma, vidi gente crollare, pur non avendo nulla da nascondere. Solo Mario si mantenne sempre impassibile, collaborava senza dare nell'occhio, aveva giostrato tutto.
Alla fine, nella scatola dei sequestri, c'erano innumerevoli riviste sporche, tra cui una di quelle con gli animali, dei coltellini, una dozzina di pacchetti di sigarette e bottiglie di Ruhm ed Alchermes, praticamente vuote. Un magro bottino per i furibondi ispettori, consapevoli di essere stati beffati alla grande. Avevo messo l'enorme panetto di fumo proprio nell'odiata radio AIWA, sapevo che nessuno avrebbe acceso la musica nel bel mezzo del blitz inquisitorio. Smontando le grosse pile stilo si otteneva giusto lo spazio sufficiente ad occultare la droga. Poi pregai, per la prima volta da quando ero al campo e forse al mondo, il buon Gesù, di proteggere quella stagnola e di conseguenza la mia inviolata mandibola.
La cosa funzionò, ebbi giusto in tempo per lasciare il panetto a Mario, nel posto concordato, e di rimettere al loro posto le batterie, che accorse un sorvegliante ad accendere lo stereo, per allietare quelle ultime ore di campeggio, appesantite dalla penosa pratica perquisitoria. Ascoltai quelle ore di canti sacri con rinnovata gioia e letizia, prima di risalire nel pulmino del servizio pubblico per tornare verso casa.
D'altronde, uscì dai quei due giorni e mezzo sapendo di non essere abbastanza grasso e di odiare tremendamente la chitarra acustica. Il suo suono mi procura, ancor oggi, comprensibilissimi sudori freddi.
Ecco, gentilissimi ospiti di questa gioiosa giornata, come conobbi gli sposi: Mario e Marta. Non so perché in questa cerimonia mi sia stato dato tanto spazio, forse senza di me, Mario sarebbe finito precocemente in un riformatorio, forse le sue fuorvianti passioni giovanili, tuttora gradite, l'avrebbero distolto dalla sua strada, che poi era la stessa di Marta. Se sono qui c'è senz'altro una ragione oscura, che è poi la stessa per cui tanto spazio era destinato alle pile, nei vecchi modelli di stereo compatti trasportabili con maniglia. Io posso solo augurare loro tutto il bene, come auguro a voi di godervi il rinfresco, l'orchestra e l'ottimo vino gratis. 
Ora, chi ha da accendere, miei cari?

lunedì 1 aprile 2013

Cassetto n°85

Il treno sta frenando, non so a che stazione siamo, la sento svegliarsi, la sua mandibola si muove, sbadiglia o manda giù la saliva: 
-é stato proprio, bello questo viaggio!-  Lo biascica piano, impastato tra i denti
-a me un po' dispiace, non aver trovato del tempo per uscire dalla città, vedere fuori, vedere solo le cose che vedono tutti-
-devi sempre essere scontento, fuori da cosa?  Fuori da Belgrado? Coglione!-
-no, così, era per dire-
Atterrati poche ore prima, lei appoggiata a me, la testa mi preme sulla clavicola, nel naso l'odore del suo shampoo, odore di miele.
Mi concentro, cerco di decifrare cosa dice pagina tre di questo romanzo, David Foster Wallace, talmente geniale, che non capisco una riga, vorrei già buttarlo dal finestrino, ma è davvero troppo geniale.
Sento la sua testa levarsi da me, mi fissa, gli occhi piantati sull'herpes al lato del mio labbro. Mi stacco dalla pagina, la guardo. Sono un pò in imbarazzo
- senti, vorrei che dopo questo viaggio le cose cambiassero -
- le cose?  Che cose?-
- noi, l'equilibrio delle cose tra noi, cioè basta pensare al nostro tempo come se fosse finito, da riempire, vorrei fosse un susseguirsi di cose, senza bisogno di marcare dei momenti-
- io non lo faccio!-
- vorrei che noi due fossimo e basta, un tempo, senza pause, dimmi se capisci-
- credo di si!-
-no, tu prendi tutto come se dovesse finire, sempre-
-le cose devono finire, noi finiamo-
-no, noi non finiamo brutta testa di merda! Noi ora siamo e restiamo!-
Mi paralizzo a guardare fuori, ha toccato punti più vivi di quanto volesse. Sono oltre, troppi metri dal finestrino, ogni cosa che vedo, va a sbattere contro quei binari, poi oltrepassa quel punto, adesso.

- devi smetterla di vivere come sempre appeso a un filo, ti fai del male e ne fai a me!-
Cerco con lo sguardo qualche casa, ma non ce ne sono qui, solo terra e viti, al massimo pozze di pioggia.
Il treno frena, siamo immobili tra Bologna e non precisate località della linea adriatica, campi geometrici, non si muove nulla. Tiro la cerniera dello zaino, così, per fare qualcosa, è incastrata dal sale e dalla salsedine, bloccata. Provo a tirare più forte, poi lascio perdere. Allora la guardo negli occhi. Mi guarda, in silenzio, la bocca contratta, sta per parlare ma tace, fine, la linea della sua bocca lascia intravedere i due incisivi, come chi pensa o come chi beve.  Vuole sapere cosa penso, io so cosa penso, ma non so dirlo, non ancora.
Poi un botto, un treno merci, lunghissimo, carico di furgoni bianchi, sfreccia in direzione opposta a noi, un bianco accecante, infiniti musi di camion, stemmi, fanali coperti da plastiche protettive, incontro a noi, contromano.
Venti, trenta o forse quaranta, perfetti, camioncini in linea, come animali o soldati dell'esercito Bianco, sfiorano la linea del nostro mezzo, tagliano con la loro sagoma gli alberi da frutto, ne vedo appena le cime.
Poi finisce, altro botto, fine del suono, torna il verde, ci mette poco. 

-io ora so che tu ci sei- mi dice
Il suo tono è cambiato, la sua solita voce, più distesa.
-ma cosa guardavi?-
-ah. Tutti quei furgoni, erano infiniti. Chissà perché, erano tanti...-

Si appoggia a me, siamo vicini, vicini come non siamo mai stati. Riparte.