sabato 26 gennaio 2013

Cassetto n°75


Presto il professor Costa mi avrebbe fermato per un caffè, la borsa di studio era mia da inizio semestre, poi con la raccomandazione di Costa, frocio di sicuro, da Verona sarei volato, direzione Boston.
Ero nato per le macchine, miglior punteggio al test di informatica ed era il mio orgoglio radicato non aver mai troppo da dire, troppo silenzio, non c'erano risposte ambigue nei computer, mai come allora potevo tenere lontano ciò che volevo, che mi avrebbe distrutto.
Se entravo in grandi spirali di pensiero astratto trovavo solo vuoto, ragionando su ogni significato, su ogni gesto, all'infinito, avrei passato la vita a fare qualcosa di stupido, avrei comunque potuto zittire qualunque uomo su qualsiasi affermazione assoluta.

Avevo ventitrè anni, una BMW e il più grosso conto in banca di tutta la facoltà. L'arroganza necessaria era supportata dai fatti e da serie possibilità di impiego in aziende del calibro di Grouptech SRL e AssinInfo ARL. Oltre al bagaglio tecnico per uno stipendio a quattro zeri potevo anche vantare dritto da torneo e rovescio appena poco al di sotto per i set di tennis coi direttori, nonché spigliatezza e parlantina per abbordaggi al Golf Club
L'obiettivo, il futuro, erano India o Brasile, ero proiettato là tramite contatti di mio padre, Enzo Tresoldi, ad unico e fondatore di StargraphicsVerona, colosso della grafica 3D e dell'animazione computerizzata per pubblicità e serie per bambini.

Qua nessuno si era minimamente accorto di quanto dovessi bere per sostenermi, tenevo sempre una Nemiroff in armadio a casa, ne scolavo almeno tre bottiglie a settimana, senza ghiaccio, a volte con una striscia di cocaina.
Solo Angela, la governante dei miei, mi aveva preso una volta da parte per sentire l'alito, le avevo  soffiato in faccia di farsi i cazzi suoi e lavare separati i delicati in acqua fredda.
Anche che calzini,  mutande e lenzuola andavano stirati al contrario.
Sui sedici ero stato un discreto fumatore, ma l'erba non mi dava più sostegno, avevo abbandonato il fumo, ormai frammentava, diluiva i passaggi mentali che mi avrebbero condotto alla tesi a giugno, un preparato teorico riguardante i sistemi diagnostici integrati nella rete aziendale, un modello di sperimentazione di reti wireless su architettura distribuita.

Nella testa avevo mille tracce, particelle spinte all'obiettivo e non avevo bisogno della felicità, anzi cercavo specifici stati di carenza emotiva per essere esattamente quello che ero.
La motivazione dei miei compagni di università era interessante da osservare, mi intrigava pensare a come uomini senza talento accettino di credere in obiettivi che sanno di non poter raggiungere. Era un filone emotivo di ricerca per alcuni lavori che avrei senz'altro sperimentato in futuro.

Era finalmente il sedici, mi avvicinai all'ufficio del professor Costa nel momento esatto in cui usciva, era, come sempre, impeccabile nel suo soprabito e nel tre bottoni il lana grigio piombo e cravatta motivo Burberry's. Aveva il Sole ripiegato sotto il braccio sinistro, sobbalzò e sorrise intimidito: 

- ah, salve Tresoldi, proprio lei cercavo! -
- eccomi dottore, la stavo cercando anch'io -

sabato 19 gennaio 2013

Cassetto n°74


Cercavo una continuità nella segnaletica, dopo sei ore di guida era davvero facile perdersi in pensieri,
ok per questo pneumatico che volò sul mio parabrezza uccidendomi e che fu una vera sorpresa,  ma il concetto è più complesso. 
Potrei anche dire che non dovevo essere neppure in auto, dovendo ritirare l'orologio al centro commerciale da almeno un mese, chiusura del negozio 19 e 30, ma sarei inesatto, proprio perché il corpo di 80 kg, sganciatosi dal tir, centrò in pieno il mio vetro alle 19 e 19, togliendomi dai pensieri della cena e altre piccole paranoie. 

Non per farla semplice ma non si muore subito, cioè si resta in una attesa di sviluppi anche per giorni o comunque per del tempo, intanto si continuano a fare cose della solita vita: film, evacuare, lavatrici, solo non si lavora e si è sempre da soli. La mia sala d'aspetto aveva le sembianze del vecchio appartamento dello studentato universitario, trasmettevano continuamente in diffusione Segovia, poi dalle finestre il paesaggio non era granché, alberelli e un parco, direi periferia bolognese, nessuna traccia dei miei vecchi coinquilini . Gli specchi erano stati tutti rimossi ma fuori e dentro non ero più identico a me stesso. Provavo grande accettazione e come l'odore di  polvere da sparo, ma forse quello era l'incidente, rimasto nell'aria. 
Ecco, discorso a parte per gli odori, il mio maglione aveva lo stesso profumo Dsquared di sempre, misto a sudore e sigarette, molta pioggia, un pò di asfalto e gas di scarico.

La ruota mi piombò sulla faccia a 130 km orari, una ghigliottina senza lama, non c'era tempo per fare bagagli, in una una tempesta di ghiaccio e vetri, ma non riuscivo ad interrompere un ragionamento iniziato prima, la mia ricerca della continuità. 
Cioè ragionavo su quanto la presenza nel tempo e nello spazio modificasse le vite altrui, le cose, il buongiorno dato la mattina, l'auto di lato che obbliga a cercare altro parcheggio, prendere al bar l'ultima brioche ai frutti di bosco. Ora, ad esempio, la vita del camionista sarebbe cambiata,  pensavo bevendo un deca nella mia stanza, sarebbe cambiata anche quella di alcuni infermieri, degli automobilisti dietro di me e quelli dell'altra corsia, di chi avrebbe letto l'articolo, la mia famiglia amici e conoscenti, legali, assicuratori, il mondo sarebbe cambiato. Nel farlo non provavo nessun dolore passando da una a zero vite Non leggerò più, pensavo, questo e altre mille faccende in cui cercavo almeno qualcosa a cui aggrapparmi, ma non mi appartenevano più.

domenica 13 gennaio 2013

Cassetto n°73

Erano mesi che sta roba mi chiudeva dentro casa, la certezza che sarebbe entrato mentre dormivo per depredarmi, farmi fuori.
Era interessato alla casa, lui viveva qui accanto o a qualche chilometro, lo sentivo pensare con me, nel silenzio del buio delle stanze di sopra, avrà pur avuto le sue chiavi, ma non potevo sorprenderlo, non sapevo nemmeno se fosse reale.
Un tessuto a scacchi, rossi e neri, ecco quello che avevo visto.
Non avrei mai dovuto affittare una casa tanto grande, pensavo mentre lavavo i bicchieri con l'acqua fredda mangiando legumi direttamente dai barattoli, una casa tanto piena di scatole, di cose altrui, piena di angoli dove potevano accadere cose che non avrei mai visto o sentito. Ma era l'unica libera in questa zona e costava poco, davvero poco.
Avrebbe preso le mie cose, il computer, la macchina fotografica e tutto il resto, non importava era solo roba, il peggio era non sapere, ad esempio la macchina blu, che ogni mattina sfrecciava due volte: erano le sue mosse di studio? Certo ero un tipo prevedibile nelle abitudini, sapevo che sarebbe venuto mentre dormivo.

Il gatto, anche, era diventato strano, era un simpatico bastardo quando avevo affittato la cascina, mi si strisciava sempre alle gambe ora si faceva vedere meno, era magro e quasi rifiutava il cibo, stava cercando altri alloggi, malato, fiutava morte.

Io la notte lo sentivo che la notte c'era qualcosa che non andava, improvvisi colpi di freddo e controllavo il termosifone, che poi era a posto, sognavo sempre quel tessuto a scacchi neri e rossi senza capire mai dove cazzo l'avessi visto. 
Poi, se mi svegliavo, riprendere sonno era come fare una confessione all'inferno, riprendere le fila di un discorso non mio, sognavo sempre di un uomo, un dolore, piedi staccati appena di poco dal piano del tavolino, non lontano da qui e dondolava, dondolava senza sosta.