domenica 29 luglio 2012

Cassetto n°50


Si svegliò con le prime luci del giorno, aveva le coperte che lo avvolgevano da appena sopra il mento fino ai talloni dei piedi. Non aveva puntato la sveglia, era solito destarsi in quelle ore anche quando non aveva nulla da fare. Come quel mattino. La spesa era stata già fatta il giorno prima, il giovedì, il giorno della spesa. Si dedicava al rito della spesa il lunedì e il giovedì dalle nove alle dieci. Comprava latte, insalata, verdura, salcicce, pasta, biscotti secchi e gelato in scatola panna e fragola; cassa quattro. Ma quel mattino no, non doveva fare la spesa. Si levò la coperta e il lenzuolo di dosso e con un solo gesto mise i piedi per terra. Gli capitava di fare quel gesto ogni mattina, ma quella mattina era diversa. Le ciabatte erano sempre ai piedi del letto e lui le centrava con una certa precisione tutte le volte. Inconsciamente sapeva dov’erano. Ma questa volta no. Le piante dei piedi avevano toccato il freddo pavimento anziché la superficie delle ciabatte. Con gli occhi semichiusi, incapaci di vedere, calpestò intorno a quella zona, prima con un piede, poi con l’altro. Niente, delle ciabatte neanche l’ombra. Avendo recuperato una visione più nitida della stanza iniziò a guardarsi intorno. Gli sembrò strano non trovarle lì, al solito posto e ancora più strano gli sembrò quando non le vide nella zona limitrofa al letto. Sospettò di averle scalciate inavvertitamente prima di coricarsi e nonostante il mal di schiena si chinò a gattoni per guardare sotto il letto. Niente. Solo grossi grumi di polvere che si ripromise di spazzare non appena avesse trovato le ciabatte. Si sentì ansioso, ma meno del solito. Quando qualcosa usciva dalla sua routine lo spaventava, anche una sciocchezza come questa. Poi cominciò ad innervosirsi; con se stesso naturalmente, con chi altri? Non di certo con le ciabatte. Decise però di muoversi a svolgere le sue funzioni mattutine, non si poteva tralasciare nulla, la giornata era iniziata nel modo peggiore, bisognava riportare tutto alla quadratura. I piedi calpestavano residui di sabbia finissima portata in casa dalle scarpe e minuscoli granelli di polvere. Ma le pulizie dovevano attendere le otto di quel giorno. Ne prima, ne dopo. Dal corridoio semibuio entrò nel soggiorno. Premette una, due, tre volte l’interruttore della luce; luce accesa. Aprì le serrande e poi premette di nuovo l’interruttore una, due, tre volte; luce spenta. Un sole tiepido illuminava le prime ore di quel mattino. Si diresse in cucina e si lavò le mani attentamente con una saponetta nuova, che gettò nel bidone dopo averla usata. Fatto ciò mise su l’acqua per il the.
Entrando in bagno si ricordò di essere ancora scalzo. Questa volta non si innervosì, anzi era contento.
Non gli capitava di frequente di passare sopra a una delle sue abitudini così, senza andare in crisi e rovinarsi la giornata. Sì, ma le ciabatte dov’erano? Non le aveva ancora viste. Eppure ricordava di essersele tolte prima di coricarsi.
Dopo aver urinato ed espletato le abluzioni di quella mattina, si versò finalmente il the e prese i suoi uno, due, tre biscotti secchi, col quale, si nutriva per colazione ogni giorno. Si mise a sedere appoggiando il tutto in bell’ordine davanti a lui, sul tavolo. Rimase in contemplazione qualche secondo, osservando quelle poche cose. Poi girò il manico della tazza verso la finestra, come faceva sempre e intinse la metà perfetta del primo biscotto dandoci immediatamente un morso. Ripose la metà, non impregnata di the, sul tovagliolo e fece lo stesso con gli altri due biscotti. Fatto ciò, immerse le metà rimanenti nella tazza e con straordinaria maestria le recuperò tutte con il cucchiaino e le masticò compiaciuto. Era un rito che ripeteva ogni mattina, ma non l’aveva fatto mai a piedi scalzi. La cosa che riteneva straordinaria di quella giornata, era che ormai non gli importava più di non avere ai piedi le sue comode ciabatte ed era un sollievo. Era abituato ad avere tutto programmato e tutto quello che faceva aveva un rito ben preciso. Fuori da quelle abitudini si sentiva perso, ma stavolta no. Guardò fuori, nonostante fosse ancora molto freddo si stava preparando un’ottima giornata di sole. Si sentiva addirittura un odore diverso nell’aria, che riusciva a traspirare pure dalle finestre chiuse. Sì era proprio una bella giornata.
Poi ebbe una illuminazione. Perché rimanere intrappolato in casa? Aveva passato una vita schiavo delle sue ossessioni, in un tracciato definito dal quale non poteva sconfinare. O meglio: dal quale non voleva sconfinare. Perché tutte queste paure? Era riuscito a svolgere le funzioni mattutine da scalzo, poteva anche decidere di non bere l’intera tazza di te oggi. O addirittura concludere la colazione con il gelato panna e fragola, che era invece il dessert del venerdì sera. Migliaia di nuove opzioni occupavano la sua mente. Si sentì di nuovo vivo. “Quando ho iniziato ad avere così paura di vivere?” non se lo ricordava. Anzi non gli importava. Lasciò tutto sul tavolo e una vocina dentro di lui gli suggeriva: “lava la tazza e il cucchiaio, metti in lavatrice il tovagliolo, leva le briciole dalla tavola. Devi farlo!”. Si era scollegato da se stesso, era incontrollabile, doveva uscire, doveva respirare quell’aria portata dal vento quella mattina. Aveva voglia di pane caldo, di risentire quel sapore. Si sarebbe diretto in un altro forno stavolta, in quello nel quale sarebbe voluto andare tante volte, ma non riusciva, non si fidava. Si vestì in fretta “non tralasciare nessun bottone della camicia o qualcuno se ne accorgerà, riderà di te. Devi farlo!” disse la vocina dentro di lui. Nessuno avrebbe riso, pensava: “ma cosa avevo in mente?”. Si sentiva come rinato, al centro di una vita nuova tutta da vivere. “È così che ci si sente a non avere paura?”.
Poi aprì la scarpiera e vide che tutte le scarpe erano sparite. Anche quelle della domenica che si metteva per andare in chiesa e col quale aveva paura di calpestare le crepe sul marciapiede. Rimase basito davanti agli scomparti vuoti del mobile. Prima le ciabatte, ora le scarpe. Era molto strano. Dov’erano finite le scarpe? Pensò subito a un ladro. Ma quale ladro ruberebbe solo scarpe e ciabatte. Cose di poco valore.
Si ricordò di quando era bambino, suo padre sul letto di morte gli aveva raccontato dell’importanza delle scarpe. L’importanza di proteggere i piedi durante la guerra. Chi non ha buone scarpe non si muove, non cerca cibo, non scappa “Senza scarpe sei morto”diceva.
Aprì la finestra. Sembrava che il tempo si fosse fermato, non era neanche più freddo. Tornò a letto a respirare quell’aria profumata.

mercoledì 18 luglio 2012

Cassetto n°49

Rimini, statale 16 verso Ancona, confine Romagna-Marche.
Sfibrato, come Celine, al termine del suo viaggio per la notte, do un passaggio a un autostoppista perso nel caldo, appoggiato al guardrail.
Guido da sei ore, una notte, riconosco quel giovane, sembro proprio io, prima delle mie scelte, prima delle mie strade, ma non riesco a dar peso alla cosa.
Distratto mi dice dove va, ed è proprio dove vado io: una linea sfocata la sua... che perde luce ad ogni respiro, la sua fiducia nelle cose, la sua tosse, mi urtano subito.
Osservo lo zaino, le mostrine: sono i nodi al pettine, le strade mai imboccate.
Lisbona, Stoccolma, Budapest, Belgrado...
Guido verso un parcheggio coperto, un grande centro commerciale in fallimento, una traiettoria mi porta negli occhi di Matteo,  a 17 anni.
Rimango a guardarlo sbuffare sangue nero dalla bocca e dallo squarcio al collo.
Una trama di schizzi sul finestrino e lui, che pensa a pulirsi, mentre muore, cerca il fazzoletto.

sabato 14 luglio 2012

Cassetto n°48

lontana da qui, se servivi
mi guardavi, come per parlare 
scappavi, superavi
un incendio chiuso, una malattia al cuore
del quale non eri cura, eri virus, 
trasformati in cibo, denti 
per sentirci sfiorarci,
ci schiantavamo
raccoglievamo i pezzi,
tempo finito, non ci aspettava,
eravamo innocenti per capire la gioia, 
per quel rumore, quel silenzio 

martedì 10 luglio 2012

Cassetto n°47


Perchè poi, da me, c'era questa regola non scritta. Nei pasti, pranzo soprattutto, ci si sedeva, frettolosi, con una fame nera che gli stomaci combattevano indemoniati nei loro loculi, una fame che non ci si guardava neppure in faccia. 
Ma allo sporzionmento calava un silenzioso silenzio. 
Gomiti giù dal tavolo, ed eccoci proiettati nella Baviera del '700.
Si alzava il mento e gli occhi andavano nel primo posto pensabile: il piatto dell'altro. 
Grande armonia e sguardo fisso nel vuoto nel chiedere: "chi ne vuole ancora? è tutto a posto?", ma se ci si abbandonava ai piaceri del buffet con un carciofo o una fettina extra, ecco l'anello debole, l'ammorbato! 
Il bis andava negato fino alle contrazioni addominali. Ci si alzava, affamati, che la tavola era ancora imbandita, e tutti fingevano di essere sazi, simulando sbadigli, gran sfregamenti di ventre...partivano intanto nelle nostre teste progetti di saccheggi in dispensa, prenotazioni di spuntini multipli al bar.. in questa fase era essenziale, però, mantenere il contegno.
E poi mia mamma, che era l'ultima ad alzarsi da tavola, e aveva già proceduto a manovre di avvicinamento e aggiramento del tegame, spazzolava furiosamente tutto, tra gli insulti e lo sdegno generale.
Perchè nessuno è più veloce di chi ha fame.
Perchè alla fine ho sempre pensato che mia mamma aveva capito tutto.