lunedì 30 dicembre 2013

Cassetto n°113

- Avere un gran cazzo è la via...
Una frase di mio padre, certo che se questa frase l'avesse pronunciata Rocco Siffredi avrei capito, John Holmes già meno, che è finito schiavo della coca e morto di AIDS...
Poi ci sono i fatti, la vita stessa di Tamburo, ad esempio, mi ha fatto dubitare definitivamente di questo dogma.
Eravamo sempre noi tre: io, Magno e Tamburo, a giocare a pallone, a rompere i vetri delle cascine, a toccare le tettine della Milli. Sempre insieme, inseparabili, ma lo sapevamo: Tamburo non era come noi. 
I primi dubbi venivano anche da vestiti, Tamburo si sedeva sempre con calma, Tamburo non correva mai, cioè correva si, ma non era libero come noi. Tamburo aveva un cazzo enorme.
Ma non dico un cazzo grande venti, ventidue centimetri, Tamburo era malato, Tamburo era freak, come dicono gli americani.
Il suo soprannome viene dall'82, una mia festa di compleanno, i miei mi avevano regalato una batteria giocattolo, quelle da pochi soldi e ci stavamo divertendo a suonarla a turno. Più che altro si faceva del casino per mandar via quelli meno simpatici, quelli che vengono, obbligati dai genitori, con un regalo di merda tipo un bagnoschiuma o un pigiama.
Il piano era restare noi tre con la Milli e spupazzarcela per metà del tempo dietro ai divani.
A un certo punto, si piazza Magno e comincia a battere le casse, dice che sa suonare come Slash, che poi ignoravamo essere il chitarrista dei Gun's n Roses, per noi era solo uno bravo. Insomma Magno non si leva dalle palle e monopolizza lo strumento. Allora Tamburo, che è uno incazzoso, lo spinge a terra e si sistema alla batteria. Ovviamente sedendosi con calma, piano.
Magno, stronzo come pochi, scaglia le bacchette fuori dalla finestra e che fa Tamburo? Preso dalla foga tira fuori il cazzo e comincia di slancio a sbatterlo sulle casse, di dritto e di rovescio. poi anche di lato. Solide, vibranti randellate al tamburo.
A un certo punto incrocia pure le mani dietro alla testa e ad occhi chiusi prosegue ad assestare robusti schiaffoni di punta alle membrane dello strumento.
La festa si ferma, sento mia madre che dice, dall'altra parte della sala:
- Oh santa madonna, ma sua madre lo sa?
La festa è finita, la frase di mia madre resta nell'aria, pesante, come l'imbarazzo di mio padre, la visione di quello che avevamo tutti supposto, ma mai quantificato esattamente, sancisce la fine di un'epoca, la consapevolezza delle differenze. L'età adulta ha quindi inizio.
- Avere un gran cazzo è la via, ma non è tutto.
Riassume mio padre, piega il giornale e lo getta nel cassetto della carta vecchia, si gira ed entra in cucina, trascinando le ciabatte. Un uomo finito.
Gli anni dopo sono quelli di chi parte, di chi resta al paese. Tamburo lo dicono a Roma a studiare, poi compaiono notizie che è in Germania e ripara camion, Magno si sposa, io pure.
Io felice, lui mai, vittima di un'avida risucchiatrice di soldi rimasta incinta la prima sera, sui sedili della sua Opel bianca senza specchietti.
Magno piange spesso con me al telefono, Tamburo intanto, sparisce del tutto dalla circolazione.
Solo tre giorni fa, in un sito porno tedesco, lo vedo, è lui, in piedi in mezzo a un cerchio di giovani mulatte, serve loro il suo pezzo forte, sul cabaret, tra paste e cannoli siciliani.
Si sa, un pizzico di stereotipi nel panorama porno han sempre fruttato bene. Il film si chiama Mulatte e biscotti e Tamburo è ingrassato, porta i baffi e nei cinque minuti di promo del video, non dà sfoggio di grandi doti artistiche, ma solo di un cappellino da pasticcere e dei baffi che ho già detto. La camera indugia sul suo enorme apparato, che nel tempo pare ingrassato insieme a lui, poi è tutto un incedere di allusioni relative al verbo "infornare" ecc.
Di solito gli uomini con un grande pisello hanno baffi rigogliosi e fanno mestieri umili, penso ridendo mentre chiudo il Macbook.
Domani prendo il telefono e lo chiamo, giuro.
Un anno dopo, il telefono, lo prendo davvero.
Appuntamento a Ostia, alla trattoria Malagola, un ristorantino che gestisco con due soci sulla statale, sono passati quasi vent'anni da quelle feste in casa.
- Mamma mia Tambù, quante fighe che te farai!
- Ah no perchè te pensi che me le scopo?
- No, e che ce giochi a carte?
- No ti spiego: io ce faccio le foto, je metto la punta, così...dù sorrisetti, poi quelle se le scopano altri
- cioè artri col cazzo piccolo?
- No cazzo piccolo no, ma meno grosso del mio, le attrici non vogliono mica rimanè disossate
- ah dici che guardano alla carriera
- Poi me tira poco
- Che?
- Ah Magno, me tira pocooooooo!
-  Embhè! E inforco il primo pezzo di rombo
Tamburo parla da solo, come da flusso di coscienza:
- Io non avevo mai capito, cioè certe cose se non te le dice la gente mica ci pensi tu. Sta cosa del cazzo,  ad esempio, che ne sapevo io, mica è come avere un gran naso o un tiro alla Ronaldo. Quello te lo fan notare dalla nascita. Sono stato nel Guiness dei primati ragazzi, tre anni, mi pagavano pure, poi spunta sto newyorkese chiamato Jonah Falcon, trentasette centimetri certificati, tutti a casa.
- E quindi, che succede Tambù?
- Eh che succede, il lavoro andava male me sò trovato a far sti video, ste maialate, ma poi non lo tenevo più su, ci volevano delle funi, poi la bamba e me sò quasi avvelenato de Viagra e Cialis e l'anno scorso, primo infarto. Succede che a marzo me faccio ridurre il pisello
- Succede che ce diventi normale fratè...
- Non ho chiesto io sto fardello, non tutto l'eccesso è un dono
Rimaniamo silenziosi un attimo, a fissare i piatti. Giusto.
- Quindi un chirurgo de Ginevra me toglie sti quattro cinque centimetri de scopa, vivo mejo e de più. Che me frega der cazzo a mè, se non posso scopà, poi mica me rimane na miccetta...
Mi pare il momento  giusto di alzare un calice al cielo e lo alzo
- Alla spuntatina!
La serata prosegue e brindiamo a Tamburo, all'eccesso di dono e alle stelle cadute, alla statale che da Ostia va a Roma e alla moglie di Magno, che gli ha concesso il divorzio. Ed era ora, sta stronza.


martedì 24 dicembre 2013

Cassetto n°112

Addobba l'albero di Natale, alla Feltrinelli, ha un buco dentro enorme, lo chiama la Cosa. 
Filippo non riesce neppure a darle un nome per quanto lo assorbe, sta Cosa. Gironzola per gli scaffali, suddivide i volumi, i clienti gli sorridono, sbircia il titolo di quello che hanno in mano. 
Poi scappa, torna agli addobbi, gli han detto esattamente come farlo, l'albero. Qua ti dicono come fare tutto: poche palline, solo argentate e sotto devi metterci il nuovo di Fabio Volo, tra le lucine, frega niente se non approvi, c'è il budget di Natale da rispettare!
Lui lo metterà lì sotto, Fabio Volo, ma circonderà il libro di pecorelle del presepe: chi vuol intendere intenda…piccole rivincite da nerd.

Torna a lavorare mentalmente sulla Cosa, è come se lui volesse trovare delle immagini per riempirla, sta Cosa, senza riuscirci. La forza che lo attrae verso la Cosa è la sua spinta più forte: lo mette a tavola, lo fa alzare, gli fa lavare capelli e denti. Ha cominciato a darle quel nome sei mesi fa, mentre gli spiegavano il lavoro di commesso di libri e lei era già lì. Da prima di lui. 

La sua collega Rachele è la Cosa, o meglio, lo spazio tra loro, l'essenza di quello che non hanno mai detto, i posti che non han visto assieme, il vuoto. 
Rachele non sa neppure che lui esista, per questo la Cosa è tanto forte, eppure restano due cerchi vicini, fino a tardi, che riordinano scaffali, due centri che non coincidono, ma dovrà pur passare qualcosa, dovranno pur essere, in qualche modo, più legati, ora? 
Vuole pensarlo, di poterla legare con uno spago invisibile, mentre scandisce il suo lavoro, lei lo assiste e il giorno che ha dimenticato un intero scatolone di guide in magazzino, l'ha pure coperto, col capo:
- Non era arrivato nulla stamattina, ritardo del corriere. disse lei, e via, una strizzata d'occhio.

Alle otto si chiude, per Rachele, c'è sempre qualcuno che aspetta fuori: ragazze, ragazzi, amici, professori, cani, e allora Filippo smonta di fretta, si sfila dal negozio col magone e si infila in un caffè a scrivere. Incide parole sul taccuino coi mozziconi di matita che trova in negozio, finché anche il locale non chiude e lo mandano via, simpatici, senza pagare il caffè. 
Lui torna all'appartamento, rilegge quello che ha scritto e lo trova perlopiù senza senso ed è felice, solo di poterla rivedere, la mattina dopo. 
Non è vita, nel complesso, ma chi vive mai? Si ripete e spegne la abat-jour. 
Nell'appartamento lui ci dorme soltanto, è al quarto piano in centro, ben nascosto dal mondo. Andrebbe a vivere alla Feltrinelli gratis, fosse per lui.
Roberto, il capo, lo sa: quel ragazzo ha letto tutto, dice, ti venderebbe il libro che hai appena restituito in biblioteca!
Lei in un angolo sorride, a lei Filippo sta simpatico, ma non vuol starci troppo da sola. Sente la Cosa anche lei, la cosa è forte, galoppa tra loro, come un animale che segue una diligenza sulla neve, aspettando solo che cada qualcuno. 
Ha tante ferite anche Rachele, le cura con tenacia, come per spezzare un vecchio legno secco poco per volta, perché le piace l'ordine, trovare le cose dove le ha messe, per questo preferisce evitare le persone interessate. Le persone serie, almeno.
Resta a un passo da tutti, scopa con chi vuole con chi deve e mette via le cose per potersi pagare il lusso di non farlo quel passo verso qualcuno. Per essere una persona sola.
Filippo le lascia dei messaggi nella Divina Commedia illustrata da Gustave Doré, che tanto non la compra né la apre mai nessuno, dei piccoli foglietti gialli piegati. Lei non sa se la cosa le piace, ma va avanti a raccoglierli e a leggerli.
Il contenuto non cambia molto, non sono invadenti, sono piccoli quadri della situazione, sono appunti della giornata:
Tipo - La signora Berti non può leggere tutti i libri che compra.
Tipo - Stamattina qualcuno ha rubato una Moleskine
Tipo - Quanti caffè oggi per Roberto? Io dico almeno sei

La routine taglia a metà il tempo, e la vita scorre obliqua, arriva la neve, arriva il 22 dicembre. 
Lei si mette sulla porta, come per dire, eh no adesso ti devi fermare ehi, tu, devi alzare gli occhi dal catalogo.
Una botta, incontrarsi è come sfregare due sassi, qualcosa si sbriciola e si sente quel' odore di fuoco o di pioggia al freddo. Non fosse un momento tanto serio, di quelli che la realtà torna dritta sui suoi piedi, verrebbe quasi voglia di ridere.
Ma restano in silenzio, poi è Rachele: 
- Perché in quei biglietti non ci scrivi mai qualcosa di tuo?
- Ma sono...cose mie
- Allora riformulo, perché non mi inviti a prendere un caffè?
- Perché io qui non ci sono. Io vado e sparisco, ogni sera, nel mio ascensore. Son qui solo per vederti, non per conoscerti
- Allora se ti ritrovi, stasera, io sono a correggere dei compiti alla cascina, ai Giardini Pubblici.
- Potrei passare, se trovo il coraggio, ora...ho dei cataloghi da catalogare, mi devi scusare...
- Passa, ho tenuto tutto il tempo per te

La sua voce non ha  mai avuto quella tonalità, ha la voce di chi non parla mai con nessuno,mai davvero. Filippo cerca di spostarsi che quelle parole non lo trafiggano, ma è tardi, sono arrivate a bersaglio.
Rachele non può controllarlo, non in quel momento. Lui deve, lei deve, ma non l'ha invitato per questo motivo e poi sono le dieci, le dieci e la giornata è già finita-

domenica 22 dicembre 2013

Cassetto n°111

Ci son quelle storie che basta un flash e ti tornano in mente subito, girando per la tua città. Oggi, per esempio, ero in centro a Ravenna e rivedo il tipo che non sente il freddo.
Allora premetto, Ravenna non è la mia città, ma ci ho sempre girato e ci ho fatto le superiori, accumulando una serie di fatti e di storie, di quelle che senti e poi non capisci mai se son vere, se son cazzate o se montano col tempo, fino a diventare dei mezzi miti. 
In definitiva ho capito che non importa. Da sempre, a Ravenna, c'è sto tipo: uno robusto, capelli corti neri, faccia da pugile che, dicono, che non senta il freddo. Effettivamente io l'ho sempre visto sorridente in maglietta, con dei tempi da gelo, tipo con la neve, meno tre gradi. A volte, per me, aveva anche le infradito, scalzo sul ghiaccio, tra gli spargisale. Sempre una maglietta o una camicia a maniche corte, che ti viene da guardarlo diobono. Poi c'è da dire che lui ostentava proprio sto fatto, mettendosi camicie hawaiane fosforescenti e occhialetti da sole per Natale. Bisogna dire che lo vedi sempre camminare, di fretta, da un lato all'altro della città, ma il dubbio c'è venuto a tutti: Ma come cazzo fa? 
E allora scatta la leggenda: alla base ci sarebbe un improbabile incidente in auto e la lesione permanente di un altrettanto improbabile nervo situato non so dove nel collo. Qui i principi di anatomia e fisiologia vanno in vacanza e lui, da quel giorno, non sentirebbe più il freddo. 
Che poi dici ma perché allora non il caldo? Eh son robe minuziose i nervi, millimetri di millimetri e magari era il caldo, o non sentiva più il bagnato, cazzo ne so, gli odori di soffritto.
Questo è un tipo che non si sa che lavoro faccia, magari vive a Ravenna e fa il tester per una ditta norvegese di prodotti per la pelle, o magari si paga il pane quotidiano proprio con quelle camicie hawaiane, magari è un promoter che, in virtù del danno cerebrale permanente, si fa dare i milioni da una ditta di surfwear oltreoceano.
Che le sfighe non è sempre vero che arrivano a cavallo e se ne vanno in carrozza, a volte son utili e ti risolvono la vita.
Comunque, ho sempre immaginato la fase in cui, dopo l'incidente, Ubaldo scopre lentamente il suo nuovo dono. Ce lo vedo fare gli esperimenti, un pò tipo la parte dei film della Marvel, quando l'eroe fa le prove. Allora Ubaldo parte da un semplice ghiacciolo fino a finire nudo nei blindatissimi laboratori di criogenetica a Ginevra, coperto di elettrodi e circondato da giapponesi in camice bianco e cartellina in mano. Che si grattano la testa.
Per me sto tipo se deve avere un nome, per me è Ubaldo.
Poi, magari, alla fine ha un lavoro molto meno mitologico e lavora a Cesena, all'Orogel, nelle celle degli spinaci congelati.
La realtà è che questi miti ci servono a rendere un pò più ricca la giornata, e se mai dovessi prenderci un caffè, non so se vorrei sapere veramente com'è andata... 
Ubaldo, per me, è un'istituzione a Ravenna, come la Classense o il Ravenna Festival o i tossici in piazza SanFrancesco.
Comunque, ho notato, che negli ultimi anni, lo vedo quasi meno baldanzoso, si è pure messo su il golfino. Sta a vedere che, diobono, pianì pianì, un pò di freddo sta venendo su anche a lui.

giovedì 12 dicembre 2013

Cassetto n°110


Siamo in ufficio, si preparano le terapie, ogni mattina un ripetitivo sporzionamento che spetterebbe agli infermieri ma, in ultima analisi, si fa sempre noi educatori,
Sto buttando un Nozinan 25 nel bicchierino di tal Giorgino Pusceddu, ex puglie schizofrenico di Cagliari, soffio nel bicchierino per far uscire la stagnola del blister delle compresse, mi arriva direttamente nell'occhio.
All'improvviso ronza fortissimo il cicalino dell'allarme delle camere, dò un'occhiata alla schermata: la dodici?
- ma chi cazzo dorme alla dodici?
Sorrisetti tirati, nessuno lo sa.
L'occhio mi brucia, si graffia con la linguetta in metallo, maledico il mondo, intanto con l'indice piegato torturo la palpebra che inizia a lacrimare. 
Paola, la bipolare di Modena, ci spiega che succede: stanotte il nostro primario ha litigato di brutto con la moglie, la proprietaria. La stronza l'avrebbe portato a dormire qui in clinica alle due di notte, scaricandolo dal pick-up come un sacco di legumi. Lui non può più camminare, ictus cerebrale.
- Il professore, nessuno è andato a svegliare il professore! Faccio una corsa di sopra, siamo abituati a farci contattare dal dott. Pieri con l'allarme, se sale per un pisolino, ma non è mai successo a mezzogiorno. 
Il primo ad arrivare è Marchino Zanotti, breve e scattante ossessivo compulsivo di Cuneo. Lo sposto con un braccio, quello che si presenta alla porta 12 è il classico scenario da film horror: il lampeggiante arancione sopra la porta si illumina e si spegne e da sotto l'uscio una colata abbondante di sangue rosso e denso rigagnola lungo il linoleum crema.
La porta della dodici piscia sangue più della madonnina di Civitavecchia in piena attività...
Caccio un urlo d'orrore, si sente un sottile lamento, di là dalla porta.
- Dottore come sta? 
Un brusio elettronico, pare di capire tutto bene, ma ha sbattuto il naso.
- Allora Pieri ora entriamo, si sposti, se è lì davanti!
Estraggo dalla tasca il mazzo delle chiavi, Cazzo! Ho lasciato di sotto quello giusto, con un lampo di genio balzo verso il carrello delle pulizie. Renzo, l'attempato forlivese che si occupa dell'igiene della clinica, è ipnotizzato dalla scia di sangue melmoso che sfuma verso le ruote del suo carrello. In effetti ha una sfumatura interessante, ma non c'è tempo.
- Renzo dammi il passepartout presto!
Strappo dal camice il mazzo magico, che mi renderà forse l'eroe del pomeriggio e infilo la chiave più consumata, che gira liscia con lo scatto familiare e….Porta bloccata.
- Cazzo c'è qualcosa in mezzo! La porta si muove di un centimetro per poi urtare qualcosa..è bloccata! Il dottore dev'essere caduto dalla carrozzina ed è incastrato lì dietro...
- Noi la salveremo dottore, ci sente? E chiamate sua moglie, perdio!
- AHUUMPF!
- Dev'essersi incastrata la carrozzina, sentite che rumore fa? Clink Clank
E Pusceddu, mai abbastanza calmo, arriva e tira due calci e un pugno alla porta, di là, solo lamenti di dolore
- Ma sei scemo, vuoi ammazzarlo?
- Il problema non è il peso ragazzi. Il dottore è esattamente incastrato tra porta e colonna del bagno, dovremmo sbriciolarlo per aprire...
La visione di Pusceddu è lapidaria, ma realistica: il dottor Pieri dev'essersi accasciato proprio in quell'unica posizione su mille che lo rende praticamente il puntello umano della porta.
- Ragazzi sarà una cosa lunga, vado a fare un caffè. 
e Renzo se la svigna, d'altronde è pur sempre il rappresentante sindacale, è il suo ruolo.
- Seghiamo la porta!
- Entriamo dalla finestra!
- Ma sei idiota, ci sono le sbarre, alla finestra
- Ah ok...allora bruciamo tutto!
- Ok dottore, ora spingiamo tutti insieme, lei cerchi di muovere la gamba buona e di spostarsi dalla porta
- Ok. Ci provo.
- Ma la state chiamando sua moglie?
- Si, si, ma fa occupato
- Ok intesi 1, 2 e via!...dieci, dodici braccia spingono la porta come schiavi egizi contro il blocco di pietra, la porta si piega sotto la pressione ma non si muove di un palmo. Al dì là nella stanza, rumori metallici, giunture e forse un pianto sommesso, dignitoso.
- Portatemi del vino almeno, delle sigarette, non sto poi male qui
- Eh, ma è domenica, Pieri, è tutto chiuso!
- è pure domenica, ma porca troia!
Il dottore ha sempre sostenuto l'inutilità economica-sociale della domenica: il giorno inutile, in cui tutti i negozi restano inspiegabilmente chiusi.
- Regaz, mi ho capito come si fa. Ed ecco Triglia, un tossico di Mestre, prima dare dei colpetti e poi degli strattoni alla porta, sempre più forti 
- Par mi va spustato co le vibraziùn….
- No Triglia, chelle sò e vibbrazioni dè tù scervello! Soffia Sara, la depressa senese che tira due calci di tacco alla porta, seguita a ruota dal Foglia, un alcolista di 160 kg, che la prende a testate, quella porta, ci sbatte il naso, la fronte. Piange col dottore, in comunione spirituale, legati intimamente dal rito del vino.
Ogni paziente assesta almeno una pedata, e diventa una processione, perché, in fondo, vogliono tutti bene a Pieri, il male vero è quello fuori.
Quello è il loro attestato di affetto, per sentirlo più vicino: Pieri è il babbo.
Poi Renzo, l'uomo delle pulizie, il pulitore, riemerso dal suo coma vigile e senza aver neanche portato il caffè, mi fa notare che: 
- Oscia, però, mo basta dej dal boti, sembra quasi che menino lui...
In effetti ha ragione: menare quella porta è anche ribellarsi ad anni di terapie esagerate, di reclusione e contenimento mentale. Li lasciamo fare, finché non hanno finito. 
Finché non arriva Bondi.
Bondi è IL paziente pericoloso per eccellenza, chiamato anche "il Terrore di Bologna", si dice che i bar del Pilastro chiudessero le serrande anche solo al suo passaggio. Un metro e novanta di lugubre stazza scimmiesca, maglia nera senza maniche, una mandibola enorme e gli occhi socchiusi solcati da pesanti borse violacee. 
Bondi non parla, comunica col corpo. 
Tutti si spostano in silenzio, un corridoio umano, solo per lui.
- Ma avete chiamato sua moglie?
- Si ma non risponde 
- Ah...
E lui parte, in questa improvvisata pista da bowling, con un'unica rincorsa a cui segue la disumana spallata. Lo schianto è sordo e le porte delle altre stanze si aprono, per lo spostamento d'aria, i muri vacillano, ma la porta della 12 resta chiusa. 
Se non ci è riuscito Bondi la visione del progetto cambia radicalmente, si comincia ad accettare che esista una logica superiore, che vuole che le cose rimangano così. Bondi alza le spalle dirigendosi verso le macchinette del caffè, canta: - siam tre piccoli porcellin...siamo tre... e agita le lunghe braccia avanti indietro, sempre attento, sempre pericoloso, per nulla ferito nel granitico orgoglio.
La corsia è un manto maculato di impronte di sangue secco, davanti alla porta siam rimasti in tre.
- Ragazzi, ci stiamo perdendo l'obiettivo: Pieri, è vivo?
Bum Bum..- Pieri, perdio!
- Sigarette, caffèèèè....

- Va bene Pieri, noi le cerchiamo le sigarette, il caffè dev'esser su...noi ci abbiam provato, ma comunque… sua moglie è una vacca!

martedì 3 dicembre 2013

Cassetto n°109

Cena studenti liceo scientifico statale, dieci anni dopo. Ecco il mio tempo del che fate ora?
Del chissenefotte,  del compro e rivendo mobili, del curo emorroidi per cento euro l'ora, sono cassaintegrato in pigiama a casa, tu invece? Sempre uguale, oh ma non invecchiate mai, ah è morto mio padre quest'autunno, io faccio la mamma e la moglie a tempo pieno son tanto felice.
Io nella vita sono uno che si sbatte ma soprattutto una penna a scheggia: agile, veloce e incazzata, scrivo poco ma secco. 
Dopo il sorbetto e il caffè, dopo aver coronato il pasto a base di risotto e sarde grigliate, ecco i pensieri diventare fluidi, oblunghi.
Chi non sarebbe neppure voluto venire se n'è già andato, si inizia a sentire qualcosa di vero: l'alcol ha sparso un tepore soffuso di interesse e rumore di sedie.
- A cosa pensi tu, quando ti fai una sega? 
- A un sacco di cose, in realtà, di solito sono al tavolino, sotto le mie due lauree, a gambe allungate, come adesso, sono nello stesso posto in cui scrivo. 
- E poi?
- E poi ce l'ho in mano, rifletto sul posto che occupo nel mondo, posso star anche solo lì, senza altri spazi. Molto compresso nel mio mal di schiena, sto scomodo, preso da quello che cerco di mostrarti anche in questo momento, senza riuscirci.
- Ma da cosa?
- Non c'è risposta alla tua domanda, davvero non è facile, i rapporti sono imperfetti e ci circondiamo di discese e ci spalmiamo l'olio, per renderle più lisce. Ci penso bene mentre son lì, nella mano, mi viene tutto molto più filosofico della realtà. Penso al freddo, ai piedi, all'impazienza di andare, come pulirmi dopo, penso tipo a non usare la maglietta pulita.
- Io credo che dovremmo restare ancora un po' qui. La verità arriva da sola. Un altro amaro? 
- Si, ma potrei dire cose a cui non credi, oppure cose quasi vere che ti farebbero incazzare a morte, o infine cose molto vere che romperebbero tutto. Il rapporto che abbiamo messo in piedi, a fatica, non dovremmo litigare, per dei semplici pensieri.
Una pièce, insomma, parole annotate come i cimiteri di fazzolettini usati, un tempo, come campi da calcio da percorrere col fiato a zero.
Non ti farò mai più un accenno a Beatrice, anche se tu vorresti, o a quanto vada bene il mio lavoro, ma me lo sono ritagliato bene, il mio spazio di confidenza. Occupo il mio metro e settantadue con pensieri posti solo per sostituzione.
Potrei dirti anche che la vedo, su quel  divanaccio che avete in cucina, velluto sfatto e verde. La vedo accavallare le cosce come vidi fare a quella turista americana, al Palio di Siena nel 2006, che ci persi tutto il Palio, tra quelle due cosce. 
Posso dirti che Beatrice tira il libro sulle ginocchia, gratta le calze con la copertina, un buco nella trama nera, sotto il ginocchio destro. Le unghie rosse scivolano sotto le calze nere, come rettili neonati avviluppati dentro l'involucro dell'uovo. 
Come veste male lei, pare farlo apposta, tu stai preparando il filetto al pepe, appoggio una lente di microscopio sulla sua pelle, penso, due dita dentro allo squarcio nero per sentirla, indice e medio come nella crema calda e gialla di mia nonna, servita dopo le partitelle, al freddo della neve. Si riprendeva subito l'uso del naso, mani e piedi tutt'insieme. 
Biscotti tritati, Alchermes, che va giù in vena.
Una sensazione di risveglio e lei scende col sedere dal cuscino, spinge il peso contro di me, come una farfalla che voglia farla finita, mi romperebbe le dita, per quanto le stringe.
Tu cucini la cena, inconsapevole del quadro uterino che ti si consuma a fianco. E mentre chiudo il mio Olimpo segaiolo ben al sicuro, dentro la testa, penso che avertelo scritto sarebbe stato più facile. L'inchiostro è il mestruo del sistema-pulsante-penna.  Mi accorgo del tempo trascorso, son già indietro, per le tue domande.

- Pensavi a Beatrice?
- No, ma perché ti sembro feccia?
- No, siamo amici, gli unici due qua dentro, è che è un periodo così, un po' insicuro. 
- Lamentati, allora.
- No, diciamo un periodo di merda. I miei sono anziani, poi non lavoro, lo sai che sto in casa coi guanti.
- Permettimi di dirtelo: hai rotto il cazzo! Perché io, se sono qui, non è per esistere, sono qui solo per condividere, quindi per chiudere, concludere.
- Tu puoi farlo, guidi una Golf, io nulla. Sai che è una differenza che non si colma in una vita intera, tra una Golf e il nulla?
- Piantala, metti a monte queste cazzate.
- Non tra noi, so di potertelo dire, so di potermi fidare.
- E allora fallo! Chiudiamola qui e se ti racconto quella storia di Amsterdam, il parchino, e che penso solo alle troie su YouPorn mentre me lo meno, fai finta di accontentarti e credici, a due semplici pensieri.