lunedì 30 aprile 2012

Cassetto n°35

Ci sono stagioni che si appoggiano alle cose, alle foglie. 
Non temo questo grigio, lo assorbo.
Mi sveglio, mangio, prego, lavoro, ma prima un caffè, 
la notte è così breve che non la sento. 
Parto, devo lavorare, fare ore per fare punti, non devo farmi male, devo proteggermi le dita, 
amare un poco. 
Ora basta. Dormo, prego, mangio.
Mi sveglio, mangio, prego, lascio tutto, non ho quasi fame, strategie per vedere venerdì, 
mi sporgo dal martedì, evito gli amici, evito i felici, evito le sale fumo.
Se morirò vorrei accadesse all'angolo di casa del vicino, 
abbracciato solo a me, come una cosa piccola.

giovedì 26 aprile 2012

Cassetto n°34

C'è quella nostra forma sul cuscino, la vedo
e vivo stati fragili, contratti, che non c'è l'aria
per piangere. occupo spazi piccoli, cerco di
non circoscriverli
salto il lavoro senza saltare il filo.
abito il tuo corpo con pace,
sento dove toccavi, le pendenze, gli attriti.
Siamo stati dentro, insieme, carcere distante,
lontano
e ogni chiave era un patto d'uscita, teso a
tradirci
teso e ferirci
Eravamo una bugia, chiusa in un  baule, la
chiave chiusa dentro con noi. Inutile-
in realtà siamo insieme,
in realtà siamo soli.

domenica 22 aprile 2012

Cassetto n°33



Ci siamo io e il Francese, più una mezza dozzina di artistoidi conosciuti chissà come, che bevono vinaccio della casa a piccoli sorsi e parlano a bassa voce. Il locale è la classica imitazione del bistrot parigino, con pareti scure, luce soffusa e musica jazz. Questi personaggi ci accolgono quasi tutti in maniera fredda, soprattutto due di loro che smanettano sui rispettivi IPhone e non ci degnano di uno sguardo.
Per mischiarci, io mi siedo fra una ragazza dai capelli corti, che sembra piuttosto socievole e uno di quelli col telefono che continuano a non cagarci. 
Il Francese, invece, si siede esattamente dalla parte opposta vicino a una bionda piuttosto figa e di fronte a quello che potrebbe essere benissimo il suo ragazzo.
Portano entrambi un maglione nero a collo alto, tutti e due magrissimi e tremendamente annoiati. Io e il Francese non riusciamo a comunicare, a causa delle posizioni in cui ci siamo seduti. Lo riesco malapena a vedere perché ho due persone davanti e parlare con lui senza sbraitare è impossibile. Meglio così.
Il Francese stasera mi sta sui coglioni.
Stasera prima di venire qui la discussione era sul duemiladodici, ovvero, la fine del mondo, i calendari Maya e tutte quelle menate lì.
Intendiamoci, lui non crede che finisca il mondo, ma pensa comunque ad un punto di svolta, di cambiamento e di purificazione di tutto il pianeta. Questo è il suo punto di vista. A differenza sua, io, credo che sia tutta una marea di cazzate. Non si è neanche sicuri che i Maya abbiano espresso il loro parere sul duemiladodici e comunque, non è detto che sia attendibile.
Il Francese però, forte delle sue convinzioni, mi spiegava che anche per lui era arrivato il momento di purificarsi e di togliersi qualche sassolino dalla scarpa. Poi, invitandomi a fare lo stesso, ha iniziato a farmi la morale. Che dovevo chiedere perdono alle persone che ho offeso e che, a parer suo, ho tradito nella mia vita, per trovare anch’io la via della catarsi.
Io, che ne avevo per il cazzo di tutti questi discorsi, gli ho detto: “Io non chiedo scusa proprio a nessuno! Le persone che ho offeso probabilmente se la sono cercata. In più non vedo perché te ne dovrebbe fregare qualcosa di come mi comporto io con gli altri.”. A questo punto il Francese aveva iniziato a dire che lo diceva per il mio bene, che siccome l’aveva fatto lui, avrebbe avuto piacere che lo facessi anch’io, che sono suo amico e altre stupidaggini del genere. Io già non l’ascoltavo più e avevo smesso di parlare già da qualche chilometro prima di arrivare al locale.
Ricapitolando, ci siamo io, il Francese, i due ragazzi IPhone-dipendenti, la coppietta col maglione a collo alto, la tizia con i capelli corti vicino a me e un altro personaggio che all’inizio quasi non noto. La più carica del gruppo è sicuramente la ragazza dai capelli corti che subito inizia a presentarmi tutti. Nomi che naturalmente scordo subito. L’unico a stringermi la mano è il tipo che all’inizio non avevo visto. È straniero, ha un nome impronunciabile, ma lo chiamano tutti Pit. Dev’essere greco o albanese, fatica a parlare l’italiano e capisce di conseguenza molto poco, perciò è visibilmente a disagio e si annoia pure lui. L’altro nome che ricordo, è Laura, la ragazza dai capelli corti, l’unica con cui si può avere un dialogo e l’unica che sembra divertirsi un mondo. Mentre mi chiedo cosa ci faccia una ragazza così solare e sorridente insieme ad un gruppo di nichilisti annoiati, lei mi riempie di domande.
“Quindi cosa fai nella vita?”
“Faccio il magazziniere”
“Ah sì e dove?”
“è il magazzino di un negozio di libri, in periferia”
“Wow, chissà quanti libri leggi...”
“Veramente no, non ho molto tempo quando sono lì”
Penso ai libri in magazzino, per lo più best seller da leggere sotto l’ombrellone,  non roba di qualità. Il resto sono corsi di yoga, libri di cucina, pagine da colorare per bimbi. No, decisamente niente che vorrei leggere.
Il Francese si distacca dalla conversazione che stava tenendo con la coppia dal maglione a collo alto: “Laura, te l’ha detto che è un musicista”. Il Francese è proprio un coglione, non sono un musicista, almeno non come penserà lei, ora mi tocca rispondere a un’altra marea di domande. Infatti lei con stupore esagerato mi guarda sbattendo le palpebre dei suoi occhioni e dice:
Davvero? E cosa suoni?”
“Senti, non è che sono proprio un musicista, mi piace la musica elettronica, faccio delle cose col computer poi le carico in internet. Non è che faccio musica, è più un hobby”
“Sai che ho un amico bravissimo che suona la chitarra in un gruppo. Ora non ricordo come si chiama. Vale, come si chiama il gruppo di Matteo?” e si rivolge alla fichetta bionda che quasi non le vorrebbe rispondere. Probabilmente non si sopportano, anche se Laura vuole far credere il contrario. A me invece non interessa nè questo chitarrista di nome Matteo, nè del suo maledettissimo gruppo, ma in fondo trovo carina questa Laura. È decisamente troppo esuberante, ma fisicamente è il mio tipo. Mora, occhi grandi chiari, tette e culo un po’ fuori misura. Decisamente il mio tipo. Tento di interessarmi, ma è dura. Laura lavora in una cooperativa sociale, lavora con gli immigrati come Pit, che scopro non essere ne albanese, ne tanto meno greco, ma ucraino. Scopro anche che è stata lei a trascinarlo a questa serata per integrarlo, visto che è qui da poco.
Mi alzo per andare in bagno, ma anche per staccare un secondo. Sento le gambe molli, perché con tutto quel parlare ho dovuto buttar giù diversi bicchieri di vino e ora sono un po’ sbronzo. Il bagno è al piano superiore, le scale mi sembrano veramente troppo ripide, perciò decido di espletare i miei bisogni contro il muro, fuori dal locale, in un posticino appartato. Esco nel freddo fumoso della sera e mi metto tra i bidoni della spazzatura. Con il getto della pipì, contro la parete esterna del locale, tento di scrivere “ARMAGEDDON”, ma non è così facile direzionare il flusso. Riesco a fare le prime due lettere poi mi viene tutto un po’ storto, non si capisce nemmeno se sono lettere o no. Fanculo. Rimango qualche minuto lì con l’uccello in mano. 
Perché sono venuto qui? Non sono proprio dell’umore per socializzare.
Rientrando scorgo poco lontano dall’entrata del locale, Laura e Pit che limonano selvaggiamente. Lui le tocca quelle tettone, lei cerca di riportargli le mani sui fianchi. Un classico della banalità che quasi vomito.
Ci ha pensato lei ad integrarlo e Pit ha riacquistato miracolosamente sicurezza in se stesso. Laura è proprio brava nel suo lavoro, vorrei complimentarmi, ma ora come ora mi sembra un po’ impegnata.
Torno al tavolo. Il Francese è riuscito a dirottare la conversazione sulla fine del mondo anche con la coppia e questi due se la ridono sotto i baffi, non gli sembrava vero di poter trovare un argomento, su cui poter fare un po’ di sano cinismo. Dopo qualche minuto Laura e Pit rientrano, ma solo per salutare tutti, poi fuggono dal locale. Sono tutti e due già sulla rampa di lancio e non vedono l’ora di scopare. Sono a tanto così da incazzarmi. Non sopporto questa gente, i loro discorsi, il loro modo di fare, perfino il loro odore. Forse è il vino che parla ma ad un certo punto mi vien da dire: “Chi cazzo siamo?! Perché siamo qui?”. 
Una domanda rivolta a nessuno che solitamente cadrebbe nel vuoto come tutte le domande esistenziali, che non hanno una risposta giusta. Non so se per il tono con cui ho detto queste parole, o perché, la musica in diffusione nel locale, si è fermata proprio in quel momento, ma ho attirato su di me tutta l’attenzione. Facce sbigottite più dal mio improvviso risveglio che dal senso della domanda. L’unico a rispondermi è Carlo, il tizio che fino ad allora si era fatto bellamente i fatti suoi sul suo smartphone, insieme a quell’altro, che invece ora, mi fissa insieme a tutti gli altri, non rinunciando però a tormentare il touch screen del telefono.
“Carissimo, inutile chiedersi chi siamo e perché siamo qui. Io, te, le altre persone sedute al tavolo, perfino gli oggetti, l’aria, gli odori intorno a noi, fanno parte della stessa fottuta cosa. Pur essendo diversi è tutto uguale e tutto ha la stessa importanza. Non tutti la pensiamo allo stesso modo, ma io penso, che tutti noi cerchiamo qualcosa che in realtà abbiamo già”.
Le parole di Carlo che attraversano tutto il tavolo ci tengono inchiodati alla sedia. Poi, rivolgendosi al Francese e agli altri due dice: “Forse la fine del mondo avverrà quando veramente non si riconoscerà la differenza tra Laura, Pit, il letto dove sicuramente stanno scopando e il cielo notturno. Oppure l’esatto contrario. Il mondo sarà come noi: degli estranei ad un tavolo. Non ci sarà un singolo frammento che si congiungerà ad un altro, ma in ogni caso sarà tutto perfetto” poi tornando a scrutare lo schermo dell’IPhone “oh! Tre notifiche su facebook”.
Saluto tutti, mi alzo e vado via. Sono venuto in macchina con il Francese, ma fa lo stesso, vado a piedi, ho voglia di camminare.
Il mio orologio fa mezzanotte e quindi oggi è il 21 dicembre 2012. Penso quindi che l’apocalisse esista, ma sia un fatto individuale. Ognuno avrà la sua.  




Max Penombra

lunedì 16 aprile 2012

Cassetto n°32

non giocate col mio cuore o diventerà un ordigno, vi esploderà tra le mani. Io ho tentato, altre persone, il fuoco mi ha coperto come giusta punizione, flagello.
Ho stretto altri occhi dentro i miei, poi li ho lasciati scivolare via, scappato da case accoglienti, da tavole imbandite. Ho bevuto tanto per coprire le colpe, sono sempre riemerse, doppie triple immense.
Un uomo non dovrebbe ricordare, un uomo è fatto per vivere, un uomo è un dolore sordo che emerge piano. vedo la tastiera di un pianoforte, ogni tasto, ogni vita, ogni passo, la mandibola che si contrae l'aria che passa sibilando e il cuore si fa piccolo piccolo e il battito sfuma, quasi non lo sento più.
Se respiro è per restituire, se mangio è amore, se piango è espiazione
farmi perdonare? sempre
odiare purtroppo
brevi tratti d'amore, scintille di falò 
bruciore al cuore, le ginocchia cedono
dottore, è morte!



giovedì 12 aprile 2012

Cassetto n°31

i vestiti che porto mi cedono addosso,  inconsistenti, mi lasciano solo.
tante volte al giorno sono solo, perché ho tessuti autorigeneranti, loro non tengono
sfrattati dalla mia presenza
forse dovrei portarmi dietro il tempo, appoggiato alle ginocchia, aggrappato alla schiena.
non posso stare seduto, steso o in piedi, dovrei correre fino a spezzare questa caviglia,
lasciare che ciò che non tiene possa cedere. colpo di sonno improvviso
si avvicina la fermata

domenica 8 aprile 2012

Cassetto n°30


25 dicembre.
Mi sveglio, in realtà mi sveglia l'odore di arrosto e lo sbattere di pentole...tocco la sveglia: 9 e 45.
Bene! penso: quattro ore al lavoro. Fuori dal letto, aria fredda, due messaggi, uno è TIM, e l'altro di lei, che non riesce a rassegnarsi e mi dispensa un propizio proverbio indiano.
-Natale tibetano- penso, cinico, mentre giro scalzo la casa, e penso che nelle festività le proporzioni si modifichino, casa mia oggi, è piccolissima.
Cerco di preparare una sorta di colazione, tecnicamente caffè e due torroncini Sperlari.  Uno lo lascio a metà sul bordo del lavello, quello al cioccolato, invece, lo finisco, senza rimorsi. Durante il mio pasto frugale lo sguardo vitreo di mio zio, piantato tra le scapole, la mia fretta che sale, il suo non capire. Non ho voglia di leggere, resto in contemplazione del mio abete sintetico, spento.
Lo trovo bellissimo, sguarnito ed essenziale, ricorda le vecchie stampe giapponesi.
Sull'orlo dei trent'anni me la sto godendo, certo! Credo.
Rispetto al passato ho voglia di pranzo di Natale, ho voglia di stare coi miei, un bis da mia madre, insistente. In effetti siamo tutti più distesi, ci tratteniamo, nessuno critica apertamente nessuno e le portate si susseguono veloci, trotto, accompagnate da due discrete bottiglie di sangiovese. Forse il tempo ha rinsaldato, forse stanno scemando persino le energie per litigare.
Gioco con la cipollina nel piatto, riesce sempre a rotolare al centro, in una posizione diversa, la porto su, piano, con la forchetta, sul bordo.
Poi un sibilo, un botto e la tovaglia si tende, bicchieri si toccano, un baleno e tutto è a terra, in frantumi, cocci, acqua fredda sulle cosce.
Non realizzo. Mio padre è piegato, una mano tira il maglione lontano dal petto, come per strapparlo, non emette suoni, il suo viso è prima rosso, poi scuro. Sento, con la pelle, che la cosa è grave, proprio oggi. Ora.
Le mani cercano il cellulare, non credevo di saper tremare ancora così, e mi sfugge tra le dita, questa saponetta con la SIM, e va a cadere e si apre, esce la batteria.
Non riesco a calmare queste mani, ogni secondo fa la differenza, mi rimbalza nella testa, ogni secondo.
L'ambulanza arriverà, faranno del loro meglio e saranno parole rassicuranti, calde, con quei giubbini sempre perfettamente arancioni..
Penso a mio padre, al vento di risacca\ che è il nostro rapporto, pochi gesti, scarse parole, tanto in sospeso, che a parlare si aveva paura di ferirsi, quasi si avessero in bocca coltelli, non frasi. Lo tocco, provo a stringergli i polsi e, istantaneamente, sento peso,  perchè io e lui, di tanto in tanto, dobbiamo metterci le mani addosso, per capire che esistiamo. Lui ora è mio figlio, mentre l'occlusione aortica lo porta via da qui, sento il suo corpo perdere un poco di peso, forse è l'affanno della vita o semplicemente il peso dell'anima...come quel bel film. 
L'ambulanza è arrivata, in meno di dodici minuti, ora è tutto fatidico, guido, percorro le strade seguendo la giostra blu di luci, sopra avanza il circo del passato.
Supero un'auto come la mia, passo davanti a me stesso, mi vedo guidare, il labbro contratto, occhi vuoti, fissi sul portellone dell'ambulanza, potrei guidare così per giorni, senza pause e non accorgermi di nulla, del tempo che passa.
E ora, penso, inizio a morire pure io.

giovedì 5 aprile 2012

Cassetto n°29


Ho sempre pensato che la morte fosse da vigliacchi, una via di fuga per poveri vecchi. Ma oggi, 30/03/12, l'avverto, non imminente, fuma sigari e mi attende dietro a un banco di un caffè, o al termine di una agile rampa di scale.
Non è l'angoscia di andare, è una sbirciatina, la conta dei vecchi delle cose da fare, lo sguardo dei bambini che non trovano la madre al mercato, le testa reclinata di un piccione che muore, tra i piedi, nella Metro.
Rosso di sangue delle rose nel tramonto di ogni mia sera. Il sole si fonde a ogni mio osso, si salda al suo interno e leggo nelle cose sussurri di restare, mi avvicino alle statue nel parco, colate del petrolio della notte che cala, come non temo l'abbraccio caldo e umido di mia madre.
Piango di lei per lei, perchè la morte non ha madre morte ad attenderla, non esiste, che per compagnia.

Budapest.

domenica 1 aprile 2012

Cassetto n°28

Dalla fila per il check-in vedo passare sempre le stesse persone, il corridoio ne è pieno. Le hostess trascinano i gamboni stanchi, tutte abbracciate al loro cellulare, se seguono una traccia, un pensiero, mi piace pensare che sia un pò anche il mio. Credo cerchino un divano, un gatto e una zuppa, magari sollevare quei gamboni gonfi... hanno l'aria di non volere altro.
I divanetti su cui stavo sanno di essere vicini e arancioni, ma fingono di star lì per caso, se mi ci sedessi mi abbraccerebbero, ancora, come se fossi il primo. Un ubriaco con l'aria da pugile mi trottola davanti, spende tutto in Smirnoff, inveisce al cellulare, forse spento, penso che dev'esser ricco, per bere a certi regimi. 
Mi fermo a fissare l'uomo in pantaloni gialli, calvo, insicuro, la testa tanto lucida, da mostrarne la fragilità. Non gli voglio bene per nulla, neanche un pò. 
Non ballo con tutti loro, non sono un orso.