giovedì 26 giugno 2014

Cassetto n°133

Salcantara, dietro la collina del mio paese, era una lingua di terra piena di fascino, un fiordo antico, snello come la nonna di Lucio.
- Quanti anni ha, tua nonna?
- Centodiciassette e fuma.
Era l'obiettivo del pomeriggio: realizzare un cortometraggio su Salcantara: perché gli abitanti di Salcantara non litigano mai, perché? Non lo avremmo girato quel giorno, ma eravamo tre colleghi, in appuntamento, per raccogliere le idee.
Elvis, l'addetto video, sarebbe entrato in azione solo nell'ultima fase, per ora si limitava a sorbire una granita al lime e a consigliare di lavorare dopo le cinque del pomeriggio, quando il sole scende e riempie di ombre i calanchi profondi delle colline in argilla.
- Colline come elefanti bianchi, pensavo.
La storia, la trama era il mio compito: cosa volevo rappresentare? Salcantara, brutta solo in foto, era un mondo che dovevi toccare con mano, per capire. Volevo fissarne l'immobilità, trasmettere l'assenza di richieste di quel  luogo.
Lucio, il produttore e sponsor, non capivo perché volesse tanto questo film, doveva essere originario di queste zone, lui, poi era salito per lavoro, ma da come stava seduto con le gambe incrociate, sul cuscino del bar, a fumare, si vedeva che era a casa.
Eppure era un paese in crisi, dalle tasse altissime e dal clima paludoso e sulfureo, il mare aveva perso gran parte del pesce e avevano costruito degli orribili casermoni cubici, con piscina al centro, dove avevano sperato di chiudere le giovani coppie, schiave di qualche promessa.
La gente si svegliava, lavorava e moriva. Era normale vederli scendere tutti, in fila indiana, la sera, dalle colline terrazzate verso la lama obliqua del mare, un richiamo argenteo di piazza, musica di chitarre, quasi niente da spendere, ginocchia nere come tizzoni al sole.
Eran spariti dai supermercati gli ultimi sacchi di riso, eppure la gente riusciva a mettersi sulla strada, con leggerezza, quasi che l'assenza di ambizione e di prospettive, avesse depurato Salcantara da ogni istinto di sopraffazione umana. Era comunismo utopico, in un paese che puntava dritto all'implosione naturale. L'umanità viveva nei bar di Salcantara, le serate più lunghe, i dehors più affollati e, se una barista ti passava un caffè annacquato, dentro una latta di fagioli lucidata, lo faceva col sorriso più pieno e gentile che mai avresti visto.
- Questo documentario non vuole partire. Pensavo, infastidito dall'odore di mughetto, che impestava le salite consumate del centro, d'altronde se non c'è nulla, che fai?
Cammini e ti lisci la barba, se sei donna, ti aggiusti gli abiti, mai una piega, la forma vive anche nel poco, anzi, sopratutto nel poco.
- Ci vorrebbe roba forte, tipo la storia di qualcuno che si lancia da uno scoglio, che non arriva alla fine del mese.
Tutti avevano appena quello di cui avevan  bisogno, era dolce, la sera sul golfo di Salcantara, un promontorio senza luce elettrica. 
Allora pensammo che fosse il mare, la causa, il mare è sempre più ricco degli uomini che vi ci abitano, ma il mare è ovunque, non si sapeva da dove riprenderlo.
Era una sera ventosa, Lucio, silenzioso, saltava ormai ogni cena, era ossessionato dall'andamento delle mie idee.
- A che punto sei? Hai capito? Spiava febbrilmente i miei scarabocchi, li chiamava appunti. Elvis era visibilmente fuori fase, stanco, lasciava sempre meno nascosta l'intenzione di lasciare Salcantara
Un pò Portogallo, un pò Grecia, Malta, questa Salcantara. 
Ho trovato da dove dobbiamo partire.
Salimmo su per i sentieri, verso i monti, che erano le cinque e mezza.
Una sera ventosa, avevo Lucio di fianco a me, era sempre più magro e dritto, mi ricordava quegli scheletri che ci sono nei film, nelle classi dei licei americani.
Ci dividemmo l'attrezzatura di Elvis: cavalletto e macchina da presa io, una valigia di pellicole, lui. La salita era impegnativa, una parete sgretolata, un lastrone unico di granito e gesso traslucido nel sole. Lucio era in testa, arpionava le rocce e le radici con le punte delle All-Star, sembrava posseduto. Io dietro, Elvis, pesante, sbuffava elencando una lista incomprensibile di bestemmie, nomi di ex e qualche verso  grugnito che poteva essere il nome di un calciatore degli album Panini.
- Manca poco. Questa fu la frase che per quarantacinque minuti di protratto sforzo fisico Lucio ripeteva ad intervalli regolari
- Manca poco
Intanto ci alzavamo su Salcantara, erano le sei e mezza, il sole cominciava a tingere il mare di lamelle di fuoco: fucina del fabbro del mondo, l'isola piombava nell'oscurità, senza proteste, senza l'arroganza dell'elettricità.
Elvis era tornato indietro già da un pò, ma avevamo la telecamera ed era ormai una cosa tra me e Lucio, volevo vedere, anzi sapere, dove mi stesse portando. 
- Non dirmi che manca poco, o ti ammazzo
- Manca poco.
Eravamo molto alti, un migliaio di metri, forse, quando sentì l'odore.
Arrivati, la punta del monte sopra Salcantara, era uno sperone nero e curvo, il becco di un enorme corvo, che sbucava dalla terra.
- Vieni, lassù vedrai
La vegetazione era ormai sparita, e la luce stava lentamente lasciandoci soli, lassù.
- Questo! Eccolo. Saliti sulla punta, scoprii le mie vecchie vertigini, il vento divenne impetuoso, mischiava odore di terra e ginepro e mirto, come un mulino. Lucio era paralizzato, guardava tanto lontano da farmi perdere l'equilibrio. Pensai che sarebbe stato assurdo portare lassù l'attrezzatura, per girare.
- Vieni qui, amico. 
Arrancai di fianco a Lucio, la paura sotto le suole delle Timberland, lui era in alto, non poteva essere più in alto, io poco sotto.
Rischiai lo sguardo in avanti e rimasi senza fiato. Salcantara era la punta più esterna, ma dietro di lei, a perdita d'occhio, tante altre lingue di terra, simili, si perdevano a distanza dell'imbrunire, parallele come costole del medesimo torace.
- Le vedi, sembrano fatte per essere gemelle, eppure nessuna è fuori quanto lei.
Il mare intorno a Salcantara era il più scuro e agitato, perché è così che l'uomo vive, nel buio e nell'incertezza.
- Vedi, avevamo ragione, è il mare.
- Mia nonna non c'è più, da oggi pomeriggio. Ha vissuto sempre qui, a Salcantara, per un secolo e quasi altri vent'anni
E quelle parole, dentro quel vento maestoso, nella nostra distanza dal suolo, mi parvero il più bell'addio che avessi mai sentito. Poi qualcosa, dietro di noi, si mosse.

venerdì 20 giugno 2014

Cassetto n°132

R. O. S. A.

è un giorno di sole
di traverso sul letto, guarda il portatile. La guardo, si solleva verso di me, se apro la mandibola schioccherà fortissimo, lo sento, rovinerò tutto, prima o poi, ma la trattengo, la trattengo con me, finché posso.

Come sono finito qui? Scorrevo gli annunci di lavoro, nel sito dell'Impiego. Laboratorio di Arteterapia, ehi ma conosco una ragazza che lavora in quel posto, la chiamo, è gentile e due giorni dopo mi contattano.

Non che si stia bene, ma non si sta neppure male, seduti qui fuori, il giardino è enorme, la villa è enorme, al sole, sulle candide mura si arrampicano glicine ed edera. Gli ospiti della clinica giocano a rimpallarsi una bottiglia di plastica vuota, in cerchio, come gatti, si scaldano al sole, nei loro camiciotti di flanella.
Non fosse per i mucchi di sigarette, per le grondaie sfondate a pugni, direi di non essere neppure in una clinica psichiatrica.
Non so se mi prenderanno, mi scoccia ammetterlo, che ormai un po' ci tengo, a questo lavoro

Mi vengono in mente le discussioni rabbiose di ieri sera, al telefono con Chiara, uso sempre le parole sbagliate, i suoi tempi, diversi dai miei. La nostra storia durerà come un tubetto di dentifricio, .
E non ho l'accendino, frugo in tasca ma niente. Certo, ricordo che oggi smetto di fumare, basta. Non l'ho preso apposta. Poi perché rispondo a tutti questi annunci? Tanto per fare qualcosa, per non finire l'accademia di belle arti, a Firenze, che mi piace troppo poter dire, che faccio ancora lo studente.
In realtà miro sopratutto ad evitare di trovarmi a dormire in macchina, come auspica mio padre, o in qualche argine di fiume o di parcheggio di supermercato, a mio avviso, luoghi pieni di fantasmi.
Un fantasma però, lo incontrai lo stesso, ed era il mio, e gli piaceva guardarmi di traverso. Lo vidi negli occhi di Rosa, la prima volta che li fissai.

Mi aprono il portone della clinica, dieci minuti dopo
Un'infermiera bionda, alta, camice ben stirato, le spalle
- entri pure, giovanotto, schiocca la cicca sotto il palato e spalanca la porta di ferro, che cigola.
Il medico si avvicina, scivolando dal corridoio perpendicolare al mio, mi porge la mano senza presentarsi, è asciutta:
- sei qui per il disegno, vero?
- Si, sono Francesco, ci siamo sentiti via mail. Cambio lato alla cartellina per dargli la mano, il dottore è uno che comanda, si vede, lo capisco dai bellissimi occhiali in tartaruga e dalla mano perfettamente asciutta.
Mi guarda, come si guarda un insetto ribaltato, che non ripartirà.
- Mi segua
Fa spazio, tra le carte nel suo ufficietto, pareti color acqua: bambini ridenti, un bassotto color sabbia, e delle belle case: una vita intera, tutta nelle foto sulla scrivania, tutto pare diluito e costoso, frivolo, come il tempo, che porta denaro nelle tasche di chi lavora qui dentro.
Mi crea ansia, questo profumo, è dolce, innaturale, ai lati degli occhi spuntano dettagli fastidiosi, portapenne e piante di un verde artificiale, assurdo.
Dovrò lavorare solo con una paziente, una donna, circa trent'anni, la sua storia si è fermata molto tempo fa, come il suo corpo
- Non crederà mai alla sua età, aspetti di vederla. La tratti con attenzione, non le dia informazioni personali, non le dia nulla, per il suo bene, ci contatti per ogni dubbio. Anzi, passi da qua, ogni volta che avete finito
- Che obiettivi avete per lei?
- Sarebbe già molto che parlasse: che colore preferisce, se ha freddo, cosa le piace. Capisce? Perché parlare parla, ma è come se non parlasse con noi, non si sente nulla, in quello che dice.

Esco dallo studio pensando di aver sbagliato qualcosa, ho sottovalutato decisamente il lavoro e fumo la mia prima sigaretta, dopo aver smesso, stamattina. Mi serve qualcosa per scandire il tempo, per capire cosa c'è prima e cosa c'è adesso.

Torno in clinica il lunedì dopo, piove stavolta, piove da ieri. Mi son documentato: arte e psichiatria. Angelo mi ha detto: divertitevi, lei, sopratutto, falla divertire
L'infermiera con il caschetto biondo, mi attende alla porta, allunga la mano e mi prende a braccetto:
- Rosa è alla 12, vedrà, che carina e stringe
- Si chiama Rosa?
- Vedrà
E ride e stringe e mi sbuffa nell'orecchio un getto nasale caldo e paludoso, d'aria di sigaretta
Davanti ho una porta bianca, senza numero.

L'infermiera bussa e fa schioccare la gomma sul palato, con un ghigno satanico che ci manca poco che mi lanci dei preservativi
La porta, ad aprirsi, impiega troppo
Sono sudato: lei è in piedi jeans, tuta, un'enorme massa di capelli raccolti, è magra, sottile, mani davanti al grembo. Sembra una piccola madonna di ceramica, pallida con gli occhi neri come il buio. L'ambiente è in penombra, l'odore che, fino a poco fa qualcuno, qui, ci ha dormito. Mi avvicino.

Non mi vengono cose da dire, ruoto di qualche grado: bella stanza e mi guardo intorno, con quell'aria, che è la più stupida imitazione di estasi che riesca a simulare.
Alza le spalle e allarga le braccia, poi sospira. Sospiro anche io, più piano, la stanza è piccola, ma non minuscola, lei è magra ma ha un bel seno pieno, poi ci sono un letto, due armadi e una scrivania, nessuna tv, dentro i suoi occhi neri mi pare di leggere una vena d'oro.
Sbircio un terrazzo con tavolino e due sedie, anche se siamo ad altezza del terreno, l'illusione di uscire, magari tocchi le foglie dei pioppi, che grattano sulle ringhiere e stai già meglio.
Almeno non ci sono le sbarre alle finestre, star qui dev'essere una scelta, nessun obbligo, lei vuol starci.
E questa cosa mi rassicura.
Matto il blocco di fogli grandi ruvidi, sul tavolo, dispongo intorno matite, pastelli e colori a cera, che rotolano verso di lei.
Le chiedo se vuole cominciare a fare qualcosa, dice no, per ora, e mi siedo.
Non parliamo, nessun libro sulle mensole, impossibile provare a costruire una discussione, neppure un quadro, una riproduzione di Van Gogh, niente.
Cazzo, qui vogliono proprio farti pensare! Il silenzio, è un problema mio, non suo, penso, scivolo sulla sedia, la cartellina cade, la raccolgo, lei mi guarda le scarpe
è caldo, davvero caldo qui, dico, eppure tremo.

Ci sono delle Winston sul tavolino, le avvicina con la punta delle dita alla mia mano. Annuisce, annuisco.
Sul terrazzo c'è un foro nel muro, si infila la sigaretta, si preme un pulsante, quando esce è accesa. Han paura che ci diamo fuoco, non lo dice però, lo dicono i suoi occhi, lunghi e neri.
Fumiamo con calma, lei è piccola, mi chiedo come si senta in quella tuta. Non mi pare una ragazza che di solito metta la tuta
Rientriamo, si siede e riprende il silenzio, abbandono l'idea di fare qualcosa, per oggi.
Io e lei non disegneremo mai, ancora non posso saperlo, però.
Una sintonia strana, acrobatica, tra noi, come il volo degli uccelli, mi pare capisca cosa penso e sorride, da sola, a capo chino. Non c'è distacco, anzi la più forte assenza di distanza che abbia mai provato

- Cosa dobbiamo fare, qua, secondo te?
- Io vorrei essere aiutata, vorrei essere aiutata a usare i colori, i bianchi, soprattutto, vorrei parlare coi bianchi e con quei colori che non chiedono nulla.
Dico a Rosa che non sono un medico, non entreremo nel merito di cos'ha, ma l'aiuterò, e se me lo permette, useremo i colori.
Risponde vedremo, poi ringrazia.
La felicità è un occhio espanso, le dico, ma ci andremo piano, molto piano, vedrai.

La settimana dopo, Rosa, sta sul letto, non si muove, cerca di togliere una chiave dal mazzo, la deve far passare dall'anello, troppo stretto, la lascio fare, senza propormi, a un certo punto impreca.
- Tu che tipo di persona scegli di essere? Parla, ha un'altra voce. Mi chiede dove son stato, se credo che un lavoro così poco scarso possa darle qualche beneficio, mi accorgo che è diversa.
Poi parla ancora, la voce si abbassa di un tono
- L'han fatto per me, stavo male, non riuscivo più a starci, con nessuno, poi neanche da sola, le ombre si allargavano, vedevo le cose con i bordi più grossi, come disegni, poi il nero dei bordi coprì quasi tutto, tra gli occhi e la bocca della gente, non c'era più spazio per la pelle. Solo maschere, loro.
- loro chi?
- Io uscivo e mi dicevano delle cose, io non facevo nulla, ero brava, ma era come se avessi sempre colpa, le cose si stringevano, arrivavano sempre a finire su di me, capisci, i bordi venivano davvero da me.

- Erano nomi senza importanza, tre a volte, le peggiori volte ne portavano altri
- Chi erano?
- Creature di piume ed enormi becchi neri, angeli, lì per la notte. Erano forti, dicevano che ero io stessa, a punirmi
- Quanti erano?
- Sette e otto, e a volte non erano neppure loro, da dietro son tutti uguali, si mescolavano e cambiavano continuamente posto, forma, posizione erano soli e contemporaneamente c'erano tutti.
- Potresti disegnarli?
- No, rifugiati all'inizio della notte, in quell'angolino che si fa, quando non c'è posto negli occhi, quando si pensa nel letto a cosa sognare.
- Se urlavo, quando ci riuscivo, la mamma veniva e mi accarezzava i capelli, con le dita aperte, che sapevano di camomilla e tabacco
La voce di mia madre era liscia come i marmi consumati delle entrate delle chiese.

- Dai fai la brava bambina
- Dai fai la brava bambina che puoi
- Dai che sei una brava bambina se vuoi
- Dai fai la brava
sui pavimenti c'era un flusso d'acqua e sangue che copriva una lastra di muschio, di secoli
Un giorno, si sentiva peggio del solito, nel capanno del giardino, prese la benzina e aspettò il buio e gliela versò sul letto, a sua madre, sui piedi. Non aveva fuoco con se, e cominciò ad urlare, ed era un urlo che gli alberi cadevano al suolo, che la notte ti fa uno scatto ancora più dentro il buio:
- non uscirò non uscirò di qui. Ecco cosa diceva, Il giorno dopo, l'han chiusa qui, erano gli angeli, a volerlo.
Ma non potevo più, essere brava

Finisce di raccontare che la stanza è buia, le luci delle poche auto che salgono la collina solcano i vialetti.
- Non accendi mai la luce?
- Non mi serve, l'elettricità
Sono solo le sei e mezza, e c'è la cena.
Questi posti tendono ad anticipare tutti gli orari, a rassicurare
Fumo fuori, vicino alla mia auto, nel vasto parcheggio. Un giardiniere, senza che gli chieda nulla, mi parla della difficoltà a far attecchire gli ulivi su questa terra secca, troppo vicino al mare e di quanto i proprietari pretendano sempre, salti mortali e miracoli.
- Questi credono che gli ulivi stiano al mare, ma quelli sono gli olivastri, e mica fanno le olive, son tutta un'altra roba
Vede che fisso la finestra di Rosa,
Salti mortali e miracoli, penso
- Quella è figlia di uno degli uomini più ricchi di Firenze, un nobile, e quella ragazza è proprio buona.

Vedo Rosa, nella sua stanza, ogni settimana, per quattro mesi esatti, parliamo, non c'è il pudore dei conoscenti, né la vigliaccheria degli amanti, siamo vicini, negli stessi vestiti.
Vengo a sapere che è entrata sei mesi fa, il padre paga una retta extra, poi donazioni, tanti fondi per attività e ogni weekend, per lei, una leggera terapia elettroconvulsivante, resta incosciente fino alle quattro di pomeriggio e oltre, poi la luce, che le fa bene, le dicono.
- Chiudo gli occhi, mi addormento e cado, chiudo gli occhi, mi addormento e cado. Ecco come sono il giorno dopo, ma funziona, penso meno, il cibo acquista sapore. Sorrido, sorrido sempre un po'.
Due fiammelle, perse in una stanza sulle colline, questo siamo. La vedo aprirsi, capisco che è una cosa che deve andare piano, che passa di traverso nel tempo.
Poi un giorno mi accorgo che la fisso, la maggior parte della seduta, finisce che io non parlo quasi più e lei invece mi descrive immagini, fatti, gli alberi soprattutto, che la ossessionano.
Aveva un albero preferito da piccola, Mi parla di un albero, dice di possederlo, le dico che gli alberi sono della terra, mi dice che quello è il suo. Sta piantato in mezzo al campo, vicino a Pistoia, a casa sua. Una volta quell'albero le ha fatto una promessa, le ha detto di prendere un pezzo del suo legno e di toccarlo
Tu sarai questo legno, diventerai questo legno duro e impassibile, e le tue vene saranno profonde, che non le possano più tagliare, e il tuo sangue sarà profondo, che non vedrà più la luce
Stava dentro al suo tronco, si stava sposando, col suo respiro, là dentro, dove ha capito di poter essere sola e stare bene.
-A me non pare possibile non averti vista prima le dico
-è per quello che mi guardi così mi dice

Direi che, in me, quel qualcosa è diventato tutto e ora questo tutto sta prendendo una strada diversa. Devo bermi il Maalox, come acqua, per la strada di ritorno a casa, il lunedì sera.
Entro ogni volta in clinica sempre più di fretta, il personale non mi aiuta, ritardano i tempi, moduli, firme, pare vogliano farmi stare poco con lei, dico che devo andare, la gastrite mi strozza il respiro e tutti si mettono di traverso. Un solo giorno a settimana e questo corridoio, sempre più pieno di barelle, gente.
è una giornata serena, di traverso sul letto, lei guarda il portatile, mal di testa negli occhi. La guardo, si solleva, se apro la mandibola schioccherà fortissimo, lo sento, rovinerò tutto, prima o poi, ma la trattengo, la trattengo con me, finché posso
So di sbagliare, ma posso avvicinarmi? Un esperimento, oggi disegniamo ad occhi chiusi, mi metto dietro di lei, fingo di non pensare al mio petto tra le sue scapole, all'odore del suo collo, odio la mia vigliaccheria di restare appena scostato.
I miei palmi si posano sulle sue nocche, fredde, non trema, è sicura.
- Ora comincia a disegnare, occhi chiusi e poi mi dirai cosa vedi
Stiamo fermi, un minuto, sono un feto, dentro di lei
- Non vedo niente
- Va bene, e io resto qua
Poi sento le spalle tendersi, la mano destra si muove e mi dice "c'è del vento, case, i pali della luce, pozzanghere scie colorate nel cielo dei campi, il cielo in Portogallo era sempre tutto colorato quando beveva dall'oceano, fiori di campo, piazza, Orsigna Dio, la posta, i miei cavalli, le magliette pulite e il ruscello, il mio respiro dentro l'albero"
Disegna un arco, una porta e dentro rosso, leggero, quasi rosa, poi tratti verticali forti, incisi nella carta, un tronco, un albero. La matita buca il foglio, si sta incidendo la pelle della gamba, la fermo.
Ha una sottana un po' corta, forse. Le sue cosce, sono muscoli fini, di cerva, mura sottili percorse da scosse, percorse da graffi fini e precisi, mura robuste. Mi vede che la guardo, sente cosa guardo. Si ritrae, i piedi ad uncino e tira la gonna sulle ginocchia. E trema, come un'epilettica. Mi alzo in piedi. Lei gracchia e urla:
- Vattene Francesco, meglio se non vieni più
- Senti, non vuol dire nulla quello
- Ti hanno mai stuprato con il manico di un badile? Mio padre si, e non è che lo infilava e sfilava, lo girava dentro, come a volermi rompere le costole e intanto sai che facevano lui e i suoi amici col cappuccio?
Pregavano, pregavano, pregavano, masturbandosi l'un altro, uomini e donne..
- La cosa più stupida era dove guardavo, mentre lo facevano, guardavo i miei giochi, come a voler vagabondar tra le stelle, diventare una lucciola, un pensiero ed annidarmi lassù, sulla mensola, dentro a un vaso e non vedere e strapparmi le orecchie, per non sentire i grugniti e lui che chiedeva a Satana in persona, di dargli il cambio, che gli faceva male il braccio.
Sento forte l'acido in gola, non vomito solo perché non mangio da ieri. Mi metto le mani davanti alla bocca, ho paura di quello che potrei dire. Ora divento un soprammobile, pure io.
Rosa si è messa a terra, a sedere, le gambe strette dentro, non vedo la sua testa, è sparita. Non ha veramente la testa e le mani si contorcono una dentro l'altra, due serpenti, che si scacciano, come avere artigli dentro, che rodono.
- Portatemi al torrente all'Orsigna, presto, devo lavarmi!
Urla come un animale, non so dove stare, mi alzo e me ne vado, lascio tutto sul tavolo. Fuori dalla porta, gruppo di curiosi, han sentito urlare, il medico, esperto ed affidabile, mi fa cenno di seguirlo.
- Si sieda
- Stavamo lavorando
- Lei non è qualificato, Francesco, abbiamo saputo che fate, non doveva farle colloqui, ci sono gli psicologi per questo
- Mi stava dicendo delle cose, parlava di animali, di violenze atroci, parlava, dottore
- Io non credo sia utile
- Io si
- Sappiamo anche troppo bene, cosa ha dovuto passare Rosa
- Mi dia un'altra occasione, dottore
- Ci sono giorni migliori, capitano, lei è grave. Sospendiamo per una settimana, ci vediamo il 30.

Non lo dice ma è impresso in faccia a tutti: e ora, per favore, dai, levati dalle palle.

Inverno
Mi ributto nella routine più piatta, finisco qualche lavoro che mi avevano commissionato, mangio dalle scatolette, in piedi. Dei minuti spero di essermi liberato di Rosa, relegata alla sua posizione di malata, un errore familiare e sfortunato incontro sulla mia strada, in certi momenti raggiungo una fusione totale con lei, mi pare di sentirla respirare, pensare dentro di me, anche dove non c'è.
Acqua, Acqua, come Acqua che una volta che si è mischiata, non c'è più differenza, tra una e l'altra parte.
Mi sottopongo a snervanti salite sui colli, così penso meno, una sfida a rompere la bicicletta, a farmi scoppiare il cuore, finché le ginocchia non sembrano immerse nel burro, finche la testa è un garbuglio di cavi elettrici, che si massacrano a vicenda.
Domenica 29, non chiudo occhio, la mattina del trenta, ci arrivo male, sono stremato, davanti alla clinica

Non ha i suoi abiti, oggi indossa un camicione bianco, mi dice di starci più comoda, i capelli sono un regalo, ogni volta che li vedo, non sopporto la tentazione di fissarli.
Rosa è una bambina, ora, che cresce particolarmente piano
- Perché hai deciso di farti vestire così?
- Tu mi avevi parlato di colori, io sento solo fastidio, da quando vieni, cose che mi infastidiscono mi salgono su per le gambe, si stanno risvegliando gli artigli, dentro
- Cosa ti ho fatto, Rosa?
- Tu mi dovevi far disegnare, io sento amaro in bocca, dovevi togliere le schegge, le hai spinte più dentro
L'oro nei suoi occhi neri, è tramontato, non esiste più, non parla più, non uccide più.
- La mia storia non merita di essere vissuta, Francesco, arriverò al punto in cui aspetterò l'elettroshock per morire. In cui mi nutriranno per svuotarmi, tubo davanti tubo dietro.
- Tu sei ancora viva
- Oggi, Francesco, interromperei qui, volevo solo vederti
E non parla più, mai più, per un'ora.

Esco e al bar della clinica, un vecchio paziente con tre denti circa, vuol farmi sorridere: - che occhi che hai, la morte in faccia, eppure qua sono io che ho il cancro
Non riesco a rispondergli, nulla che non sia stupido o offensivo, riesco solo a fissare il caffè, senza sapere che farmene.
Il resto dei giorni non mangio, non dormo, il resto dei giorni non.
Mi rassicura fare piccole cose, mi mette al sicuro, è come se mettessi in pausa quello che penso di dirle, perché l'attimo dopo, già non la conosco, e allora vivo solo quel presente, in cui sto.
Il giorno muore, il giorno nasce, rido sempre meno, vedo in Rosa quello che trattenevo, da anni, nelle mie pause, nelle latenze, nel posticipare un incontro.
Oggi, ho una strana sensazione, la sensazione che qualcosa non vada, entro alla clinica, la 12 è aperta, vuota, il letto fatto, tirato, sento un alito di frenesia dentro: Rosa?
Ho dentro frasi di angoscia, paura: Non ho mai amato nessuna come te, il terrazzino è un vortice di piume, bianche, sembrano piumini di pioppi, non escono dal terrazzo si alzano e cadono, come una stanza d'aria chiusa nello spazio.
Aveva ragione Rosa, è davvero difficile, parlare col bianco

Mi ricompongo, vado verso l'uscita, non voglio sembrare preoccupato, dò un'occhiata alla sala fumo, dietro i vetro satinati, solo profili pesanti, non c'è. Allora è ansia vera, è angoscia e vuoto, sento lo stappo netto ho un metro di cordone ombelicale che mi sanguina dietro, a terra.
Convinciti ad andartene, è il momento giusto. Quello che le parole non avevano mai detto, l'unica cosa ragionevole, abbandonarla, ci hai pensato mille e mille volte, di far scegliere alle cose.
- Francesco!
L'elegante medico dirigente, il camice aperto, l'entrata perfetta della camicia nei pantaloni, l'entrata perfetta nella stanza stessa, quest'uomo, che doveva esser entrato in modo perfetto in ogni cosa, nella sua vita.
Mi guarda ha una sentenza, definitiva per me
Mi spiace, ho visto come la guardava, ma non era qui per fare poesia, stava male, questi ragazzi han dolori dentro che son bolle di sangue, non possiamo neanche immaginare. Stava resistendo da troppo.
è tornata a casa, dai genitori
Rosa non ha mai avuto genitori, da che so, è orfana da sempre.
-Vedi l'errore è stato anche mio, ad assumerti. è andata via, ha scelto lei, capito?
Lo aveva chiesto lei, il trasferimento, un mese fa.
- Non so cosa possa averle detto, vede, Rosa, non ha una storia sua, Rosa vive di storie, che l'attraversano. Poi le lascia.
Nella sconfitta c'è poca differenza come tra una vita e nessuna. Ho spazzato via la malattia di Rosa, ho accolto la mia. Mi avevano avvertito di non darti nulla di mio. Come diceva Ungaretti: la morte/ si sconta/ vivendo

Mi infilo di nascosto a un gruppo di auto aiuto per alcolisti, al piano terra, li ascolto. C'è un uomo grosso in camicia di jeans e codino. Piange, ha il volto rosso stretto tra le mani e dice che ha rovinato tutto e tutti e l'uomo di fianco dice, no hai noi e poi sei vivo e il primo uomo dice che di essere vivo non gliene frega un cazzo e allora tutti tacciono a capo chino e io me ne vado che ne ho già abbastanza, mentre quello singhiozza e fuori una scritta sbiadita sul muro: Ancona - Bologna, freccia a sinistra, freccia a destra.
Mi si sfascia sul petto.

La mattina dopo prendo due treni, così, il cielo e gli alberi entrano nella terra, qualcuno forse è felice, ma se lo è, il mondo non se ne cura.
Rosa è una cosa, persa, ora è nelle parole, nel carattere delle amiche, che mi scrivono di non pensarci, lontana come l'inverno.
A Firenze percorro il passaggio sopraelevato sull'Arno, scale in ferro, grate quadrettano il cielo terso. Mi sporgo sull'acqua putrida del fiume, sotto, sento di sapere, mi sporgo ancora, vedo i flussi accavallarsi e incrociarsi, le mani stringono la sbarra di ferro e sono forti, venti dita, Stacco i piedi, sul vuoto.
Allungato, ventidue metri sotto di me, per provare a sentirla, venti dita a tenermi alla vita. Ondeggio, i bordi delle maniche del giubbotto in jeans mi segnano i polsi, la schiena aperta, un inutile aquilone steso al sole.
- Credimi, morire non è niente, se ne andasse un po' d'angoscia.
Come puoi natura, essere mia madre? Non c'è ombra di nulla che mi interessi in te: compassione, protezione. C'è un grande male che ti esce dal ventre, e viene da noi, per farsi ammirare, farsi amare.
Una persona perfettamente in forma può reggere il proprio peso a lungo, in questa posizione. Io, però, quanto potrò starci?…sei minuti...dieci? Poi le mani cominceranno ad aprirsi.
Affogo o magari mi sfracello sotto contro un masso. Se poi fa male.
Sollevo la testa, un luogo immaginario, le fronde di un albero che non può esistere, sopra di me rami come vene nel tronco del cielo.
Mi sento dentro al suo tronco. Ora non saprei dove stare, se non qui.

"Rosa di rose, Signora di signore" è questa la cantilena della monaca senza volto, nascosta dietro al barbagianni

Epilogo- Lucciole
Ho bisogno di andare, entro in un sentiero così nero, foresta dritta e alta, che mi porta sempre avanti. Non sai dove sei, ma prosegui, un odore che ti dice di qua, e a un certo punto trovi come delle luci, sono luci piccole, capisci che c'è qualcosa che ti aspetta e hai il cuore pesante, ti trovi in un campo di lucciole, sono migliaia ed è buio e sei da solo e pensi che è un luogo dove ci vuole del coraggio a venire da soli, perché è pieno di luci.
Ti dispiace non avere nessuno, perché tu, l'amore, l'hai sempre scacciato, ti sei avvicinato in tanti modi, ma poi hai sempre scelto di essere solo e sei in questo campo, ed è umido, intorno sei pieno di queste lucciole, svolazzano come fiammelle, come piccoli pensieri, che si sono persi nel buio, orti, nel sentiero.
Senti un peso dentro, incredibile, capisci che devi esser qui per un motivo, e sei solo da quando sei nato, sei arrivato dove dovevi, alla consapevolezza di aver perso tutto e di essere una parte di queste luci.
Mi chiedo come loro mi vedono e se forse non ci sia nulla, tra me e queste lucciole, c'è soltanto la consapevolezza di esserne parte, di esserne dentro, non so se loro vedono in me qualche luce, voglio soltanto andare avanti e sentire di avere un senso.
Questo posto non dovrebbe finire mai, vorrei che i bambini lo vedessero, penso a chi vorrei fosse qui e non mi viene in mente una persona in particolare, non ci sono, o le ho cacciate o non ci sono. Ti rendi conto che vieni qui per un motivo, che è essere solo, che non è esser morto, perché morto non è un problema, è solo.
Le rane gracchiano lontane, ci sono delle canne con sopra dei pezzi di carta lucida che vedi appena al buio, ma, prosegui, potrebbe essere un posto felice, dovrebbero portarci i bambini qui a sfiorarle, i bambini.
Rosa era qui con te, forse più di quanto ci fosse mai stata
Rosa, dove cazzo sei finita? Ero io il pazzo per te, eri la persona che voleva stare bene e io il pazzo che non voleva guarire, ero un pazzo che cercava le lucciole. 
Ed ero una di loro, una di loro, ero una lucciola anch'io, come sempre. Ero una lucciola anch'io, che voleva essere buio, io volevo essere buio e non potevo perché avevo la luce e non potevo essere buio.
Solo perché son tante luci non vuol dire che siano giuste. No, non lo sono per forza, cammino e non voglio trovare nessuno, nessuno.
Io ho un sole, dentro, dentro, quello che Rosa mi ha dato, quello che ha messo su di me come un velo, ma era un sudario, Rosa.
Una vena di gioia, passa presto.
Questo buio enorme, io lo accetto, e ci finisco dentro, fino al collo, e lo sposo e poi sotto, fino a non capire più nulla. Fino a perdere lo spazio, l'intensità e il fondo.







mercoledì 11 giugno 2014

Cassetto n°131

Ci vuole una bella faccia tosta, una certa sicurezza e fantasia, per indossare un cappello di paglia così, a falda larga, e andarci al mercato a Cervia, mica solo stare a Savio, o al mare, andarci proprio in banca, dal notaio, eccetera.
Mio nonno, Attilio Scarpellini, aveva stile da vendere. 
- Ma non vedi che è uguale a quell'attore americano, Walter Matthau? Al pronto soccorso gli chiedevano l'autografo, che pezzo d'uomo.
Ora, io non so se mia nonna ritenesse davvero Walter Matthau un gran figo, sicuramente era alto, elegante e aveva una bella faccia simpatica da americano, molto più di quel coglione di Jack Lemmon, almeno. Mia nonna, conservava per la stazza di mio nonno un'ammirazione quasi fanciullesca.
Attilio era, dunque, alto e forte, tanto che era conosciuto come quello "del quintale" cioè Scarpellini si poteva caricare tranquillamente un quintale in spalla e salirci in bici tutto l'argine del fiume Savio. 
- Nonna, diobono, non poteva fare due giri? Le chiesi, una volta.
- Lasà andè e lavureva c'me un màtt: camiunèsta, salinèr, imbianchì.
Poi, mi ricorda, che era tra i primi ad essersi messo a vendere bombole del gas, le accumulava in un capanno degli attrezzi e sul muro, con la vernice rossa, ci aveva scritto: VIETATO FUMARE. 
C'è ancora scritto, diobono.
Ma i romagnoli sono così: matti, rissosi, spacconi e teneri, inclini a grandi imprese e a grandi cadute. Mio nonno era un esagerato, in tutto: la romagna era un paese surreale a quei tempi, in spiaggia potevi fare le foto in un set hawaiano con bonghi e palme in plastica, allestito da un fotografo professionista, ti metteva pure in braccio un cucciolo di leone vero: era la foto di tutto l'anno, mica che costasse poco.
- Quella volta che venne Benini, che era il proprietario della ditta di camio (l'ultima lettera, sopratutto se consonante è bandita da mia nonna) per cui lavorava Tiglio, a chiedergli un prestito. 
Ah Benini era uno ricco e importante, Attilio disse: noi saliamo di sopra a parlare, scesero, un minuto dopo e ridevano.
Quando Benini andò via, gli dissi: - Tiglio? Ma ci màt? Non abbiamo i soldi per pagare la casa
E lui:
- Benini è uno serio, riavremo i soldi, e poi AVEVA bisogno.
Ecco io, questa cosa di aiutare chi ha bisogno, di rischiare per gli altri, a mio nonno l'ho sempre invidiata.
Le preparazioni per il Luna Park erano esaltanti, cioè i miei nonni giravano solo in coppia, mia nonna non ha mai guidato, lui preparava e lavava la sua Wolkswagen Passat azzurrina: un carrarmato in lamiera, squadrato come le Cadillac americane, beveva come un trattore. 
Mia nonna si vestiva in cappotto e collo di volpe (presumibilmente anche d'estate) poi si partiva ai trenta km orari, velocità che, a mio nonno, non ho mai visto superare.
Tempo di percorrenza Savio-Lido di Savio intorno ai venti minuti. Dietro di sè creava code chilometriche, giovani urlanti attaccati al clacson, che lo superavano inveendo, diretti chissà da quale parte della bollente notte in riviera. 
Lui sorrideva
- C'è tempo.. solo questo, ripeteva sempre: c'è tempo.
Arrivati a Lido di Savio o a Lido di Classe, nel delirio stroboscopico del Luna Park, mia nonna stringeva la borsa
- Atenti burdel, què sò tot zengan!  
C'era il mito della grossa zingara, che ti sarebbe venuta di fianco e ti avrebbe fatto sparire sotto la sua gonna a fiori...puff! Che io, un pò, ci avrei anche sperato.
Più che una passeggiata, era una sfilata, mio nonno parcheggiava dove poteva vedere la Passat, e si faceva un giro per un gelati o dello zucchero filato. Giochi pochi, c'l'è un butè vià di baioc.
Se prendevo un sasso in mano, un bastone, essendo sempre stato amante di giochi di lancio e sfascio, lo sentivo immediatamente profetizzare il peggio: Te dì cut rimbelza in tla faza e ut cheva i oc!
Forse l'ho già detto, mio nonno era un pò estremo nei giudizi, come a credere che per qualsiasi male: dall'influenza al cancro, fossero da alternare solo spremute di arancia e Parmigiano a tocchi, perché li danno anche negli ospedali, son medicine.
Ricordo un giorno, forse un anno prima che morisse, Attilio era ancora in gran forma, mio babbo aveva preso una di quelle prime telecamere, quelle con le cassette che entravano di lato e ovviamente da un mese filmava qualsiasi cosa si muovesse intorno a lui. Quel giorno fece una lunga intervista improvvisata a mio nonno, sotto a un fico, nell'orto.
Ricordo mio nonno, in canotta bianca e cappello in paglia rispondere con sicurezza a domande sulla vita, il lavoro, il denaro, la fine, anche la sua, fine. Era bello e abbronzato, era Walter Matthau.
Io ero lì, di fianco, dietro alla macchina da presa, fu importante, esserci stato.
Ecco cazzo, adesso io, quella cassetta, vorrei proprio ritrovarla.


lunedì 9 giugno 2014

Cassetto n°130

Quattro mani enormi, davvero enormi, riempiono il tavolino del pub Abbey Road, queste grosse mani, che vorrebbero sfiorarsi, non possono più farlo.
Se poi ti stacchi da quelli mani, dal tavolino, oltre a due Guinness mezze vuote e svariate noccioline, vedi due uomini: seduti uno di fronte all'altro, uno giovane, uno vecchio, ti pare quasi una scena rubata, a guardarli così intimi.
Alessandro, o meglio SatanSantor, leader dei Disturbia, storica band della scena gothic metal di Brescia, se n'è andato nel 2009 dall'Italia e, in Norvegia, ha fondato i Satan's Sword.
Il padre è un uomo altrettanto enorme e barbuto, grigio e curvo dentro al petto scavato da giurista e bibliofilo, sembra appena uscito da una spazzolata di neve fresca, però beve Guinness come un ragazzino.
Se vedi Satan Sandor, è uno spilungone, lunghi capelli neri, completamente tatuato, vive a Oslo, viene a Milano solo due giorni all'anno, per sistemare gli affari di famiglia.
Santor fissa pensieroso il cappotto del padre, perché è giugno e non capisce cosa ci faccia, ancora, quel cappotto, su suo padre.
L'avvocato ha smesso di guardare strano il figlio già da tempo, la distanza chilometrica, l'acqua del tempo, l'hanno addolcito, sono sotto il sole a picco, ma l'avvocato ha un freddo tremendo, fin dentro alle ossa, il figlio bolle, suda, i suoi vestiti neri, sono ancora più neri, così inzuppati.
Satan oscilla sullo sgabello:
- Papà, sai che ora avrei il commercialista...
- Ehi, ma finisciti una birretta, come ti va?
- lo sai che va bene, non li leggi i giornali?
I Satan's Sword sono l'oro dei puristi del genere metal estremo, la Scandinavia non è stata una scelta casuale, là il genere va forte, fanno concerti, hanno tre bus, un elicottero e fatturano quantità di denaro imbarazzanti, ogni anno.
- ...e così papà, con le mie chitarrette e i pipistrelli, son finito a guadagnare molto più di te. Chi l'avrebbe mai detto?
- Credi mi dispiaccia? Io ne sono felice, felice, Alessandro
- Credo sia la cosa che al mondo ti rode più al culo, dopo le emorroidi, o forse ti son venute proprio così, eh babbo?
L'avvocato Bravetti, tesissimo, gioca col sottobicchiere in cartone, lo tiene in piedi sotto un dito e lo fa ruotare schiccherandone un bordo col medio, nelle sue mani pare una monetina. Sopra c'è raffigurata una lucertola che sorride. Lui ha le unghie lunghe, non curate.
- Ma papà, pensavo, perché siam così grossi?
- Tuo bisnonno, era lui grande, ma non come noi, almeno venti trenta centimetri in più, nel mio paesino era, per tutti, il "Pace", lo chiamavano per le questioni, appena appariva lui, tutti facevano subito pace
- Uhm, bella storia
Satan odia suo padre, ne odiava l'arroganza da professionista rampante e paraculato, prima, come ora ne odia la debolezza di vecchio diabetico asfittico; il tempo è un cane, pensa, quando vorresti non puoi, quando potresti, non puoi più...
Il padre, un tempo, passava le sere a leggere le denunce del figlio: ubriachezza, sesso nel bagno dei supermercati, droga, risse, rapine. Era un piccolo ribelle bastardo, ma, in fondo, aveva un suo stile, seguiva una linea e l'avvocato Bravetti sapeva, che quel progetto, sarebbe andato a segno.
Il successo, Satan, lo deve alla rabbia, il vecchio, gliel'ha regalata, Satan sente di non saper far le cose senza rabbia, non può essere bravo senza, ha cercato, quindi, solo rapporti burrascosi, caratteri contrapposti al suo, si è consumato, senza spegnersi, con puttane e discografici, amici e sfruttatori, sempre al massimo, sempre mollando per ultimo la canna, il boccale, il microfono, il coltello, solo per provare quanta resistenza potevano avere un corpo e un'anima umana.
E la sua teneva molto.
La rabbia è un tempo che non si recupera, è come fertilizzare troppo una pianta, per vederla crescere subito e morire il giorno dopo, bruciata. Ha un suo senso, ma è veloce.
Il sole era suo padre, l'acqua erano parole, promesse di farcela, che si era fatto e si era lasciato fare, e quelle grandi mani, fortissime, ora coperte di teschi e scritte, che avevano firmato per la Sony, e ora comprano case, auto, viaggi, mani che, da sole di per sè, restano tutto quello di buono che ha.
- Io oggi pomeriggio vorrei solo andare dal commercialista, poi scendere al Conad di Vigevano, prendere una cassa di Peroni calde, come ai vecchi tempi, parlare con la cassiera più brutta e scoparla sul retro, in piedi, vicino al container dei rifiuti, mentre tiene un piede sulle birre.
- Direi che se ti interessasse quello che penso, non me  lo chiederesti, quindi vai.
La domanda, però, è nell'aria, il vecchio è troppo dimagrito, ha troppo freddo, è troppo chiaro, è trasparente, dentro. 
Satan non ha nessuno voglia di farsela, la domanda, ma sopratutto, di formularla, ma la fa lo stesso
Qualcosa gli scappa dalle labbra e allora il padre parte, a ruota libera, a narrare che un equilibrio si è spezzato, quasi non sente più i piedi e piscia sangue ogni mattina, il medico dice che è qualcosa alla vescica, una di quelle robe con l'alito forte, che portano il freddo.
- Con quel che scrivo nei testi delle canzoni, mi capita spesso che qualcuno mi chieda di te, e sai che rispondo?
- No, non mi interessa.
Il tempo di finire la sua pinta, asciugare la barba col dorso della mano e pescare il portafogli, da dietro, e Satan è pronto ad andare.
- Quindi, il tuo tempo, sembra proprio arrivato, vecchio mio, posso solo augurarti una veloce discesa, hai seminato nulla e poco raccogli, a modo mio, ti ho voluto bene, da altrove, sempre.
Gli sfiora la mano, riaccende lo spino e lascia conto e mancia sul tavolino tondo in truciolato di legno.
Mentre si solleva in piedi, il vecchio vede questo membro del suo clan, altissimo, la barba nera, gli occhi gialli e cattivi, un naso a punta come le pinna di squalo.
Suo figlio appare come pura forza e determinazione, non sta fingendo, davvero non gliene frega ormai un cazzo di lui.
Dentro di sé, quell'arido vecchio, sente chiaro, un fremito d'orgoglio.

mercoledì 4 giugno 2014

Cassetto n°129

Nessun senso di colpa per l'ultimo acquisto: davvero un gran orologio. 
Il sole di Singapore taglia obliquamente l'oblò del Boeing-747, facendo rilucere la cassa del Rolex Submariner in acciaio anodizzato da quarantamila euro. In quel momento sta sospeso a novemila metri sopra allo spesso banco di nuvole spumose, di quelle che, a esser bambini, verrebbe voglia di saltarci sopra a piedi uniti. 
Pensa a quell'orologio: certi oggetti possiedono un'aura propria, pensa, la forma della perfezione e dell'esattezza, più che progettati si direbbero fusi al pensiero di chi li ha creati, appositamente per alcuni. Alcuni poveri illusi, di essere un'élite immortale, solo perché possono indossare questo orologio, o guidare quella Maserati, alcuni che credono, in qualche modo, di essere migliori, speciali. Elevati.
La forma del quadrante ottagonale fa capolino e tira sotto il polsino, né stretto né lasso, il bordo della camicia fatta a mano, un bordo spesso, senza il minimo segno di usura, la cura della spessa cucitura e la forma perfetta dei bottoni in madreperla, la camicia dev'essere sempre nuova, lavata e stirata prima di essere indossata, meglio se azzurra o delle tonalità del grigio - crema, ovviamente sotto una cintura in coccodrillo, o in elastico nautico intrecciato, se si veste sportivo.
Si guarda il dorso della grande mano abbronzata, sente di essere in una giornata qualunque del suo lungo percorso, non c'è nulla di degno di nota, la mano, che stringe il bracciolo in pelle marrone, è la sua preferita, è forte, gli piacciono i reticoli di vene che gli solcano le mani, sopratutto la destra, che ha una vena più spessa, centrale, a forma di zeta.
Si era negato tutto, fino ai vent'anni, il gusto, in quel caso, era stato attendere, rimandare, rimandare il momento in cui smettere di non permettersi nulla, in un futuro in cui ogni desiderio sarebbe stato legittimo e accessibile e studiava come far suo quel mondo.
La ragazza coreana, per altro per niente male, alla sua destra, ha un caschetto di capelli corvini notevole e un odore altrettanto degno di nota, a furia di stare in giro per il mondo, ormai, lo attirano solo due cose delle persone: l'odore e i capelli. Non avesse avuto il primo meeting alle undici, l'avrebbe invitata per un caffè. Il suo destino è ritagliarsi tempo per la vita, spezzetti riquadrati e piegati, da mettere in tasca e poi chiamare tempo libero alle cene di azionisti e con gli amici nelle confessioni davanti ai grandi camini degli chalet invernali sotto Natale.
Chissà quando morirà il pilota? L'ho visto prima, saremo circa coetanei.
Un gioco interessante, indovinare chi sarebbe morto prima e dopo di lui, lo faceva da quando era bambino, dare un tempo alle cose, alle persone. L'hostess, sicuramente, dopo di lui, il ciccione assopito con la testa che continua a cadere nella la forfora del completo blu da grandi magazzini, sicuramente molto prima, forse domani stesso. La ragazza coreana è bellissima, con la pelle color avorio e le mani curate, un velo di smalto trasparente, non avrà più di ventidue anni, sicuramente, morirà dopo di lui.
Le margarine e i grassi da forno della Freshmeal United SRL, il suo gruppo, vanno alla grande sul mercato: richieste da multinazionali e grandi catene di ristorazione, ideali per i croissant e per tutte le paste in sfoglia da prima colazione. Le spese aziendali aumentano parallelamente ad enormi profitti, scorre l'I-pad: nuovi ordini dal medioriente, India, Pakistan, Emirati, quantitativi insperabili per soli sei mesi fa. 
Lui è anche terribilmente stanco, piega il collo all'indietro ed è come se l'aereo si fermasse al buio, fluttua, resta in quella posizione qualche secondo, testa reclinata, occhi chiusi, riesce a contrarre ritmicamente mandibola e polpacci, i calzini in filo di Scozia tirano, immagina la grossa vena sul polpaccio destro solcata dall'elastico del calzino in leggera lana scozzese da quarantadue euro. 
Dopo un po' gli pare di riuscire a sincronizzare il battito di cuore su quel ritmo, un getto d'aria calda dietro ai polpacci: Signori passeggeri, stiamo per atterrare... Non riesce ad amare queste scarpe in cuoio quanto le sue Nike Freerun, ci corre sui grandi lastroni della ramblas o ci taglia le pineta toscana, incastrandole nei quadrati degli intrecci delle radici dei pini.
Pensa che vorrebbe prendersi una settimana libera, per quella gara in bici sui Pirenei, il mese prossimo, poi pensa che i sui giorni da ciclista sono ormai alla spalle, adesso che può permettersi una dueruote Madfiber da dodicimila euro, non può più usarla. Sorride malinconico.
Riporta piano la testa in avanti, piccoli lampi di luce dentro le palpebre chiuse, respira a tra i denti ed ecco i neon del corridoio centrale, gli schermi davanti ad ogni posto proiettano un film con Hugh Grant, About a boy, dovrebbe essere.
Comincia il rituale della discesa, più lento e noioso del volo stesso, prova a dormire, ma non è stanco, o meglio, le gambe si muovono, paiono una cosa a sé stante, gli vengono in mente quei corpi inanimati che si muovono sotto il rituale voodoo, nei film dell'orrore. 
Quindi si arriva, si mettono in fila, appiccicosi e ordinati come datteri nel cellophane, hanno tutti fretta e si trattengono per non mostrarlo, l'educazione occidentale della lentezza.
La ragazza coreana, in piedi, conferma i suoi dubbi: bellissima e, con i tacchi, alta quasi un metro e ottanta, quanto lui.
Essere il maggior esperto mondiale di margarine e grassi per l'industri dolciaria gli aveva aperto le porte e le gambe di quasi tutte le donne avesse voluto, nonostante il matrimonio e il poco tempo libero.
Ora scende, l'odore degli aeroporti è sempre quello: gente con giubbini catarifrangenti, bus, tubi di scappamento, deodoranti e gomme al mentolo. Sembra strano appoggiare la suola alla terraferma, è come se la terra invitasse a risalire.
Ha un rituale, prende sempre un caffè, appena arrivato, che gli vada o meno, ne ha presi centinaia, migliaia, quel sapore orribile, gradevole, bollente, annacquato, è la prima fase dell'arrivo in ogni città mondiale mai vista e abitata, ormai gli basterebbe mimare i gesti, senza berlo, il sapore arriva dalle sinapsi impazzite, dritto verso i calici gustativi delle sue papille linguali, già proiettato verso il taxi.
Ad esempio questo caffè, dello stato autonomo di Singapore, non lo sente neppure, o meglio qualcosa sa di metallo, come quando si beve alla cannula di qualche fontana ferruggionosa nelle Alpi. Non è neanche pensarlo, è appena sentirlo, il muro gli scivola via dalla schiena, è come se slittasse da dritto, dentro i suoi stessi vestiti, si trova a sbattere sulle ginocchia che cedono graduali e lisce, come margarina sul pentolino, al terreno, figura liscia.
Un osservatore esterno avrebbe potuto solo confermare: cedere con eleganza, in tre fasi, composte.

Una fitta al petto, la scritta BVLGARI che sfuma e torna, sfuma e torna, il ritmo di prima, stessa cadenza, la ragazza coreana proiettata a passo di danza, verso il Gate 13, pare un pesciolino che scheggia nell'acquario, sembra avere grandi progetti per il weekend, lui voleva andare sui Pirenei, pensa, mentre cade a faccia in giù, del tutto, davanti a un gruppo di bambini francesi che lo guardano coi panini al formaggio in mano, col formaggio fuso che cola in fili oblunghi e orribili verso il pavimento in finto marmo a specchio lucido.
Pavimenti tanto lucidi da imbarazzare le signore perse in quest'aeroporto, da qualche parte del mondo, magari proprio davanti ai cessi.
Magari lì dove sta morendo adesso.