martedì 22 aprile 2014

Cassetto n°126

Un depliant del nuovo Sushi Bar sotto casa: arancione, salmone arancione, cioè è color salmone, ma tira all'arancione, la ricarica del cellulare, ovviamente è arancione, non salmone, solo arancione appoggiata sul portafogli.
Ma è così ovattato questo silenzio da dover dire, è difficile persino da dover scrivere, ho trovato quel maglione arancione poi, hai presente che delle cose scivolano dietro ai cassetti, era finito là, stanno lì per ricordarsi di te.
Mi son sempre chiesto che fine facessero i libri che cadevano dietro gli scaffali, all'Ipercoop, stavano là anche dei mesi, soli e mi chiedevo perché non potessero essere tutti miei. 
Sono orgoglioso di star facendo ogni singola cosa senza di te, perché nonostante il dolore che trapana tutto, che mi vive qui, di dentro, io sono ancora vivo e continuo, proseguo a farmi l'orto, a fare la spesa, per esistere, non più metà, ma un unico e singolo, che basta a sé stesso.
Chiudo il sesto scatolone attento che lo scotch sia tagliato bene lungo il bordo, preciso.
Lo porto di sotto, è più pesante degli altri: libri inutili, penso.
Ho sempre amato come la luce delle nove di mattina taglia l'arco dell'ingresso: irradia verso il tavolo in rovere della cucina, e si vedono tutti i segni sul tavolo, quelli che incideva Max, con la matita, e parlavamo tutta la notte, ma tu eri nervosa, volevi solo dirgli di smettere.
Devo dirti che dei minuti mi manchi anche troppo, altri meno. Se la vedo, quella luce delle nove, sono a casa dal lavoro, e probabilmente se tu fossi qui, si sarebbe trattato di fare insieme la spola, tra letto e cucina, fino alle tre, poi tu in biblioteca.
Domani l'aereo parte alle undici, non pensavo che tutta la mia vita potesse stare in un camion arancione. Il tipo vuole mille euro per portarmi il carico in Germania, mi pare onesto, il camionista, si chiama Alfredo, come mio zio.
Le cose che fanno più male, sono le stupide, sono i capelli nei cassetti, lo spazzolino, i libri non restituiti.  Ho talmente tante cazzate tue, ormai, da poterci scrivere una tesi, sulla tua presenza.
Il maglione però lo tengo, è un polmone, da respirarci dentro, tanto avrai tante cose più belle, solo tue, ora.
Mettere chilometri, mettere tempo, minuti, dentro l'assenza, spero che la dilati, permettendole di diventare non più assenza, ma esistenza stabile e autonoma, vita dopo il vuoto.

Bah a volte non basta, perché ci si trova a percorrere strade già perse per trovarsele sbarrate, perché se ci si conosce insieme, è raro che ci si abbandoni nello stesso istante, restano brandelli lunghi e vivi di carne e ce li trasciniamo dietro, orridi come il contenuto di una pancia squarciata.
Devo uscire dall'appartamento, devo muovere le gambe
Difficile decidere da cosa cominciare, ora che tutto le mie cose sono in viaggio verso Monaco, faccio una corsa, la prima corsa senza te e corro bene, ma poi mi viene un fitta sempre nel solito punto e mi piego, forse muoio qui. 
Tornare indietro mi sembra impossibile, il cielo piega sopra, il tuo fottuto maglione arancione, riposa a casa, morbido e profumatissimo, ci affondavo la faccia, ci vivevo in quel maglione. Non mi fa correre, il maglione.

Poi mi alzavo e mi tiravi giù, per la nuca, sul letto, e mi ci rimettevi la faccia in quell'abbondantissimo arancione.
Entro in casa, come un antifurto squilla il telefono, la voce di mia madre, sospesa tra la tensione e l'amore, mi spiega di stamattina.
- L'ha aperta quella busta, papà?
- No, e se lo conosco bene, non lo farà mai, è ancora qui sul  tavolo
- Che razza di testa di cazzo, ha deciso di farsi morire, quindi
- Vuole vederti, prima che, insomma, che vai..
- Ok, stasera a cena.
E ti vedo lì, seduta dove dovresti essere, ti sei ripresa il maglione arancione, non riesci proprio a lasciarmelo un pò eh, sorridi e ti cacci in bocca un biscotto che quasi cade.
- Che c'è? Hai visto un fantasma?
Hai quella smorfia, il lato sinistro della bocca si alza prima e di più dell'altro, se mi dovevi fare male, ora me l'hai fatto davvero.
- Cosa ridi, Boccastorta?
E torno a chiudere degli scatoloni, con precisione



domenica 20 aprile 2014

Cassetto n°125

- Io ricordo esattamente il giorno in cui son diventato matto
Davide è seduto sul letto, accucciato nel suo metro e novanta, ha mani tanto grandi da far sparire una Beck's da 66, lì dentro. Tutti mi son grati se ci passo dei minuti, con lui in camera, perchè Davide è una bestia, ed è sempre ubriaco marcio e si incazza moltissimo per niente e spacca tutto.
Appoggio la schiena al freddo del suo acquario, mentre con le gambe mi puntello a un listello di pavimento un pò sollevato. I pesci piacciono tanto agli squinternati, penso, e anche ai dentisti.
Io sono al terzo giorno di lavoro in questo posto, Davide è tutt'altro che stupido, dietro alla stazza e al suo odore forte di Creola, vedo un ragazzo gentile, esperto in filosofia, che ama i cani e il mare, delicato da spaventare.
- Ti va di ascoltare?
- Son qui, parti!
- Venivo dal servizio militare, periodo di merda, peggio del solito, e per riprendermi andai in Sicilia a trovare dei parenti di mia madre, la cosa più sana che presi laggiù fu del rosolio, mi facevo della grandi camminate sulla scogliera, un cazzo da fare tutto il giorno, mi chiamavano il drago, perchè appicciavo con un tiro un chilum da tre paglie. 
Pensavo al mare, pensavo a una ragazza che avevo lasciato a Brescia, pensavo che Bologna non mi volesse più indietro, stavo davvero male. 
Allora, ti dicevo che camminavo sul molo, con lo sguardo caduto sulle punte delle scarpe, e la vidi.
Vidi questa faccia,, a pelo d'acqua, una faccia di uomo, che sfiorava il pelo come un annegato, ma non era reale, lo sapevo di starla vedendo solo io.
- e cosa faceva?
- Camminavo dritto e quella faccia mi seguiva, scorreva, come se fosse un qualcosa che era impresso nel mio occhio, si voleva solo mostrare solo nel mio occhio infatti, intanto il tempo cambiava, del tutto, diventava una notte unica e io mi connettevo per sempre al tempo.
- Ma com'era fatta?
- Una faccia da teatro greco, hai presente le maschere, una che ride, una triste? A me pareva quella triste, ma poteva essere anche l'altra. Voleva che la guardassi negli occhi e li vidi e ci caddi dentro.
Misi la mano nell'acqua pre prenderla, ma non potevo toccarla, non mi bagnavo più e un grande caldo, come liquore, come cento fuochi, come mille ulcere deformi che mi laceravano dentro, e fu così, fuoco, fuoco e ancora fuoco dentro e così, senza motivo,mi trovai tra le mani questa, che è esattamente la stessa faccia che vidi.
Davide mi porge un ciondolo, in pietra nera e levigata a lucido, piccolo come un'unghia.
Non lo so che è una trinacria, a me pare solo un simbolo tribale o qualcosa del genere.
- Tieni è tua.
- No, ma dai dopo questo racconto, questa è una cosa troppo importante per te...
- Non importa
Davide mi ha già regalato delle cose, è un suo modo per entrare in contatto, suppongo, una felpa nella quale stavo sei volte e un profumo Sergio Tacchini, ormai alcol puro
è momento in cui amo profondamente quel che faccio, uno dei pochi, in una stanza stretta tra acquario, e poster pornografici, con un pastore tedesco sotto al letto e panni e calzini appesi alla finestra ad asciugare.
Un posto in fondo al mondo, che mi dice di scendere al piano di sotto, per non esagerare, la voce della pineta sussurra di restare,, aromatica, tra le grate della finestra.
- E la colpa, Davide, la colpa di tutto, la dai a qualcuno?
- Mi madre aveva suggellato la mia pazzia con un affetto carico di risentimento, con premure inutili e assenze ingiustificate. Ma non credo ci sia altro da aggiungere, tieni quel ciondolo, ti porterà fortuna Matteo.
- Grazie, lo terrò caro.
- Quand'è che hai paura di entrare nel buio? Quando non sei felice, quando hai paura della luce perchè il buio non è niente, è realtà ampliata.
Trovo interessante l'umiltà con cui lo dice, ma, sul ciondolo, si sbagliava.


mercoledì 16 aprile 2014

Cassetto n°124

Se doveva prima o poi succedere, che succedesse lì, quella sera.
Avevo il motivo: Alice, quarta di seno, mi aveva appena comunicato che, dopo aver conosciuto meglio quel gran figo di Denis, in gita a Mantova, quel giorno stesso, non era poi più così sicura di voler stare con me. 
Sarà stata anche quell'aria tiepida ed estiva, e il sentore che certi equilibri scattano, che decisi, lucidamente, che avrei preso la prima sbornia della mia vita.
Avevo quattordici anni, i capelli lunghi e facevo il cameriere dalle 18:00 alla Festa dell'Unità di Savio, una delle poche sere che mi presentavo, essendo di servizio, avevo diritto alla cena gratis e a una consumazione pseudoalcolica allo stand del bar della festa.
Dissi a tutti i colleghi di portarmi una cosa da bere, nel retro, zona pasti del personale di servizio, chiesi loro di sacrificare la preziosa consumazione, per celebrare la fine della mia prima storia d'amore. 
In una mezz'ora arrivarono birre, grappe, dei bicchieri di vino bianco, poi rosso e qualche Montenegro con e senza ghiaccio.
Il tavolino, a vederlo così colmo davanti a me, faceva quasi paura. Mangiai le tagliatelle direttamente arrotolate nella pizza, il pesce non lo ordinavamo perché si diceva che il cuoco pisciasse continuamente di fianco alla griglia, senza poi lavarsi le mani, infatti lo chiamavano Pit-Stop. 
Io, senza sapere cosa facevo, mi buttai impavido sugli alcolici in un unico respiro.
Scolai praticamente alla goccia tutto quello che c'era sul tavolino, chiuso nel giro del cerchio degli amici, o di chi voleva semplicemente vedermi rovinare ogni residuo di reputazione, quella sera.
L'effetto salì molto lentamente, a scalini, ero solito bere qualcosa a tavola e stappare delle birre di nascosto, in cantina, ma l'effetto "mischione", non lo conoscevo ancora, mi diressi barcollante verso la sala da ballo, la musica pareva passare attraverso carta vetrata e il caldo era pazzesco.
Incrociavo persone, meglio dire ombre colorate, mi pareva di conoscerle ma non le fermavo né le guardavo in volto, volevo solo girare così, senza senso.
Mi pareva sensato soffrire, ma preferivo sentire, lasciare che qualcosa accadesse, quindi chiusi gli occhi, e l'equilibrio ne parve giovare e restai piantato in mezzo al prato. Incrociai di tutto: smalto fresco, aliti pesanti, profumi da due soldi, il sigaro buono da accendere dopo la cena di pesce, salviettine al limone chimico.
Mi diressi al bar con quella ostinata cocciutaggine da ubriaco che poi avrei imparato a conoscere bene, ma ancora mi pareva miracolosa, stringevo nel pugno qualche decina di migliaia di lire perché gli euro, ancora, non c'erano. 
Chiesi al barista una vodka, quello rise seccandosi un bicchierino di cognac e sbattendolo sul tavolo.
Il barista, figlio del grigliere di cui sopra, aveva due punti deboli e li conoscevo bene: il cuore spezzato di recente e un'insana passione per l'Inter, infatti alla botte sul bancone era fissata la foto di Capitan "Nonno Bergomi" con quattro puntine gialle.
- Tà n'è neca gli enn, par bè!
Gli spiegai che la ragazza che amavo mi aveva pubblicamente piantato per un ferrarese, si fece subito serio e scuro in volto, mi versò un bicchiere di Smirnoff ghiacciata in modo solenne, dall'alto, poi quel gesto stupendo di spolverare il bancone, come dire:  - Dai ragazzo avanti, fatti sotto, che aspetti?
Bevvi tutto d'un sorso, era iniziata un'epoca, mi sentivo un Bogart, cazzo.
- Adesso vorrei quello. 
Ed indicai il temuto bottiglione bianco, quello col tappo ermetico a leva e la sottile guarnizione arancione.
Dovete sapere che una volta, circolava questo temuto distillato casalingo bianco-opaco, che faceva circa 50 gradi, cosa in più cosa in meno, lo chiamavano il "Latte di suocera". 
Stava sempre o sottobanco o imboscato dietro ai liquori "normali", perché era prodotto con procedure casalinghe fuori regola ed era una cosa da offrire agli amici, non si vendeva, veniva usato per suggellare grandi momenti.
Qualcuno tossì in segno di perplessità o disaccordo, il barista prese comunque il boccione, lo esaminò da vicino, come se non l'avesse mai visto prima, girandolo due volte da su a giù.
- We bibi, vè che ste que, l'è un quel illeghel, 
- Avanti me ne dia un sorso. Lei non sa in che stato mi trovo 
E presi ad accarezzare la foto di Bergomi, con fare disperato.
Trangugiai netto quel bicchierino, che scese diretto nello stomaco, dritto come se gli organi interni si spostassero al suo passaggio, poi, mentre un cupo bruciore sordo, saliva alla gola e agli occhi in lacrime, tossì forte, sputandone fuori una buona parte: zampillavo come il putto di una fontana barocca.
- We bibi, brusa l'alcol?
- No è solo tosse, pensavo che fosse più forte.
Ricordo che sul bancone, quella sera, vennero posati ben tre Latte di suocera, per me. 
Un uomo molto silenzioso, che sedeva sempre in fondo e che gli altri chiamavano Ritornello, esplose in un sonoro: - We bibi, te cì màt, putèna Madana!
Andandomene dal bar dissi ad ogni persona, sopratutto se donna, le prime quattro cose che mi balenavano in mente sul suo conto. Ruppi amicizie, presi uno schiaffo sull'orecchio da non so chi e distrussi legami che la mia famiglia tesseva da anni, oltre a riceve un numero imprecisato di autorevoli e pertinenti osservazioni:
- Ma sei ubriaco?
Mi pareva di esser stato molto simpatico, brillante, di aver ballato forse, i racconti del giorno dopo, però, mi riportarono una triste scenata alcolica da paesello.
Ma pensando a quella sera, dopo lo sfogo, tornai sul luogo del misfatto: al tavolino sul retro dove era partita la serata. Il grigliere, pensieroso, fumava la sua sigaretta sfogliando il giornale di fine turno.
- Tan fè basta? Tan vid che cì de culor dla droga?
- Io devo capire se c'è un senso, perché vedi, dovrei star male, stan male tutti, invece a me non me ne frega proprio un cazzo mica…
- Là và par tè, ma pianzeret nèca te, stà bon va là...
Mi trascinai davano allo specchietto del bagno, un pallido omuncolo apparve al mio posto: un tossico, un essere viziato dalle sostanze, coi capelli scompigliati, se ero io cazzo, ero andato oltre.
Raccolsi tutti gli amici di nuovo sul retro, mi sarei esibito nel salto mortale all'indietro dalla panchina direttamente sul cemento della balera.
Il mio obiettivo era sicuramente chiudere la serata all'ospedale, fu lì che arrivò Richi. Voleva propormi un inaspettato concerto, c'erano i Lagwagon al Pala de Andrè, a Ravenna, quello che vide gli rovinò improvvisamente i piani.
- Che cazzo stai facendo?
Presi la bici, Richi cercava di trascinarmi via, dritto per i capelli, dicendomi di scendere, io rispondevo che non sapevo da dove sarei dovuto scendere, poi mi buttai a terra facendo resistenza non violenta.
Da casa mia alla festa c'erano quattrocento metri, ma ci misi un'ora intera a coprirli, cadevo dalla bici e vomitavo, e prendevo le tagliatelle intere dal vomito e le tiravo dirette addosso a Richi, ridendo su come fosse una cosa giusta. 
Credo che vomitai una decina di volte, pensai di morire, giurai di non bere mai più, ripensai di morire e mi dissi che in fondo non mi importava. In fondo stavo bene.
Non potrei qui definire Richi, era una figura protettrice, a volte quasi paterna.
Mi ritrovai appoggiato al muro di casa, Richi nascose la bici e mi disse di suonare, ero nella fase contemplativa della sbronza, mi sentivo connesso agli altri e agli alberi, parlavo quasi come un poeta del dolce stilnovo:
- Grazie Richi, buonanotte, ritirati pure, ombra quieta della sera. 
Pensavo di vedere gli alieni, appollaiati sui pini, chiedevo loro perché non volessero essere pacifici con gli uomini, che erano invece esseri naturalmente buoni e sciocchi, che si innamoravano e poi cercavano di non stare troppo male. 
Il cielo su di me era la bocca dell'Inferno, solcato da onde colorate, aurore boreali da giardino, io mi toglievo le scarpe, la gola arrossata dagli acidi, ma felice, in comunione col mondo e finalmente con me stesso. 
Decisi che avrei vissuto da quel punto la mia vera esistenza, poi vidi l'ora, ed era la mezza, io avrei detto almeno le quattro.
Le mani in tasca non trovavano chiavi, le avevo perse, oppure lasciate in cucina alla festa, bussai senza pensare al dopo.
Mio padre mi aprì la portafinestra - Cosa hai fatto? Hai bevuto? Corsi dritto in camera, mi sentivo la cosa più lercia del mondo, ma scivolai sotto le lenzuola in cerca di pace.
Mio fratello, stordito dall'odore di alcol e dal rumore, veggente del futuro, si alzò a sedere sul letto accusando
- Sei ubriaco, sei sbronzo marcio
Non riuscì a rispondergli e rivomitai tutto sul copriletto, poi arrotolai verso i piedi e mi rimisi a dormire.

Intanto mia madre arrivava con spugne e secchi, e nel corridoio, mio padre, bestemmiava il signore.


venerdì 4 aprile 2014

Cassetto n°123

Emozione, emoglobina hanno una radice comune, non sarà un caso, le parole non lo sono mai.
La parola epidermide, viene dal greco, parola composta di ἐπί, epì, «sopra» e δέρμα, dèrma, materiale fragile eppure resistente, muta corporea o maschera. 
Si sfrega la guancia, la mattina, soffiando sul caffè per svegliarsi, guarda la sveglia: le 5:00- La pelle c'entra da sempre, con la sua vita, è già un mese che ha ripreso a lavorare, dopo il richiamo per quella brutta faccenda. Non ha dovuto prendere un avvocato, i genitori del bambino hanno capito, eran persone aperte, gentili, sono andati anche a prendere una pizza insieme, poi l'ospedale ha dovuto fare la sua parte e per lei previste dieci sedute da una specialista del comportamento, alla quale non ha mai detto una sola, minima cosa di sè.
Sono le 5:05 guarda il parco sotto casa, i merli che si litigano delle cose nell'erba, la nebbia crea un palcoscenico perfetto a questi piccoli attori, non è infelice, è appesantita, dentro si sta curando.
Ma da quell'appartamento, centro Torino, deve scendere, per trovare nutrimento, vita, dentro i canali del sangue, già prima li utilizzava. 
Per lei bucare è diventata una necessità, l'unico contatto che ha con le persone vere, con la loro pelle, ogni mattina, alla sala donazioni del suo policlinico.
L'ago, grosso come un dito, scivola sotto la pelle, liscio come velluto, poi scoppia il caldo e la plastica si macchia di rosso «nella pelle c'è un etica elastica, nelle procedure della sala donazioni, c'è il suo santuario, le ripetevano i suoi maestri, le vecchie infermiere.
Le vene sono alberi stesi al suolo, sono i canali per arrivare dove si deve andare, sentire il sussulto mentre si buca, è la cosa più viva che si possa conoscere. Prendersi cura della paura, del fastidio degli altri, per una cosa piccola, come lei.
In biblioteca, non ci credono legga davvero tanto: terzo libro in una settimana, afferra solo volumi di cui non ha sentito parlare e poi scappa, la spaventa tutta quella mole di parole infilate negli scaffali, come in castigo da sempre. La disorienta l'idea che quei libri dovranno sempre tornare nello stesso posto, come una maledizione.
La fatica è costante: è vivere e fare la spesa, per chi deve curarsi dentro, quotidianamente, come lei.
Luca le ha lasciato un biglietto, un mese prima - vado in Spagna, hai tutti i miei contatti, scusami, ma non ce la faccio, non ci riusciamo, non ci parliamo, non ci tocchiamo, non mi troverai in quelle vene..
Lei cerca più lavoro, chiede turni doppi, domeniche, salta i riposi, lavora in ospedale, in associazioni private, tutto, pur di indossare un qualche camice.
- Perché non parli mai, non capisci di essere un'infermiera perfetta? La caposala è una donna semplice, vive per i figli e questa  è la sua forza. Martina la invidia, quella vita semplice.
- Hai sbagliato, hai capito, hai espiato, tu alle persone vuoi troppo bene, per bucarle, ecco tutto!
Sa che non capirebbero, non è lì, per fare conoscenza, per trovare parole dolci e conforto, è lì per fare i prelievi, entrare in quelle persone liscia, senza lasciare segni, è la sola soddisfazione che ha. Come spiegarlo?
E Martina alza gli occhi, trema , ma sa che deve bucare, tutto avviene lì, in quell'istante, che non riesce mai a vivere senza star un po' male.
Un ragazzo giovane, vene grosse, spigolose, da sportivo, eppure trema, uno strato di goccioline fini come polline gli imperla la cute
Martina lo guarda, capisce quella paura e non ci gioca, riesce solo a sussurrare in modo solenne:
- Brucia, ma vede poi passa subito
E così altre dieci, venti volte, quella mattina, come un vampiro malato, che abbia perso l'uso dei canini.

Il braccio nero di quel bambino, gonfio, le sue urla, il pallore della caposala che la sposta di peso, che estrae la siringa. I suoi arti paralizzati, il male dentro di lei, gioisce e si gonfia come carta. 
- Incapace, vedi è proprio come dicevo!

Essere allontanata come un'intrusa, essere tolta dalla responsabilità, tuo padre era malato lo sappiamo, eri distratta, non lo ero signora, ero attenta, quel bambino si è mosso, non importa, non dovevi sbagliare-