mercoledì 16 aprile 2014

Cassetto n°124

Se doveva prima o poi succedere, che succedesse lì, quella sera.
Avevo il motivo: Alice, quarta di seno, mi aveva appena comunicato che, dopo aver conosciuto meglio quel gran figo di Denis, in gita a Mantova, quel giorno stesso, non era poi più così sicura di voler stare con me. 
Sarà stata anche quell'aria tiepida ed estiva, e il sentore che certi equilibri scattano, che decisi, lucidamente, che avrei preso la prima sbornia della mia vita.
Avevo quattordici anni, i capelli lunghi e facevo il cameriere dalle 18:00 alla Festa dell'Unità di Savio, una delle poche sere che mi presentavo, essendo di servizio, avevo diritto alla cena gratis e a una consumazione pseudoalcolica allo stand del bar della festa.
Dissi a tutti i colleghi di portarmi una cosa da bere, nel retro, zona pasti del personale di servizio, chiesi loro di sacrificare la preziosa consumazione, per celebrare la fine della mia prima storia d'amore. 
In una mezz'ora arrivarono birre, grappe, dei bicchieri di vino bianco, poi rosso e qualche Montenegro con e senza ghiaccio.
Il tavolino, a vederlo così colmo davanti a me, faceva quasi paura. Mangiai le tagliatelle direttamente arrotolate nella pizza, il pesce non lo ordinavamo perché si diceva che il cuoco pisciasse continuamente di fianco alla griglia, senza poi lavarsi le mani, infatti lo chiamavano Pit-Stop. 
Io, senza sapere cosa facevo, mi buttai impavido sugli alcolici in un unico respiro.
Scolai praticamente alla goccia tutto quello che c'era sul tavolino, chiuso nel giro del cerchio degli amici, o di chi voleva semplicemente vedermi rovinare ogni residuo di reputazione, quella sera.
L'effetto salì molto lentamente, a scalini, ero solito bere qualcosa a tavola e stappare delle birre di nascosto, in cantina, ma l'effetto "mischione", non lo conoscevo ancora, mi diressi barcollante verso la sala da ballo, la musica pareva passare attraverso carta vetrata e il caldo era pazzesco.
Incrociavo persone, meglio dire ombre colorate, mi pareva di conoscerle ma non le fermavo né le guardavo in volto, volevo solo girare così, senza senso.
Mi pareva sensato soffrire, ma preferivo sentire, lasciare che qualcosa accadesse, quindi chiusi gli occhi, e l'equilibrio ne parve giovare e restai piantato in mezzo al prato. Incrociai di tutto: smalto fresco, aliti pesanti, profumi da due soldi, il sigaro buono da accendere dopo la cena di pesce, salviettine al limone chimico.
Mi diressi al bar con quella ostinata cocciutaggine da ubriaco che poi avrei imparato a conoscere bene, ma ancora mi pareva miracolosa, stringevo nel pugno qualche decina di migliaia di lire perché gli euro, ancora, non c'erano. 
Chiesi al barista una vodka, quello rise seccandosi un bicchierino di cognac e sbattendolo sul tavolo.
Il barista, figlio del grigliere di cui sopra, aveva due punti deboli e li conoscevo bene: il cuore spezzato di recente e un'insana passione per l'Inter, infatti alla botte sul bancone era fissata la foto di Capitan "Nonno Bergomi" con quattro puntine gialle.
- Tà n'è neca gli enn, par bè!
Gli spiegai che la ragazza che amavo mi aveva pubblicamente piantato per un ferrarese, si fece subito serio e scuro in volto, mi versò un bicchiere di Smirnoff ghiacciata in modo solenne, dall'alto, poi quel gesto stupendo di spolverare il bancone, come dire:  - Dai ragazzo avanti, fatti sotto, che aspetti?
Bevvi tutto d'un sorso, era iniziata un'epoca, mi sentivo un Bogart, cazzo.
- Adesso vorrei quello. 
Ed indicai il temuto bottiglione bianco, quello col tappo ermetico a leva e la sottile guarnizione arancione.
Dovete sapere che una volta, circolava questo temuto distillato casalingo bianco-opaco, che faceva circa 50 gradi, cosa in più cosa in meno, lo chiamavano il "Latte di suocera". 
Stava sempre o sottobanco o imboscato dietro ai liquori "normali", perché era prodotto con procedure casalinghe fuori regola ed era una cosa da offrire agli amici, non si vendeva, veniva usato per suggellare grandi momenti.
Qualcuno tossì in segno di perplessità o disaccordo, il barista prese comunque il boccione, lo esaminò da vicino, come se non l'avesse mai visto prima, girandolo due volte da su a giù.
- We bibi, vè che ste que, l'è un quel illeghel, 
- Avanti me ne dia un sorso. Lei non sa in che stato mi trovo 
E presi ad accarezzare la foto di Bergomi, con fare disperato.
Trangugiai netto quel bicchierino, che scese diretto nello stomaco, dritto come se gli organi interni si spostassero al suo passaggio, poi, mentre un cupo bruciore sordo, saliva alla gola e agli occhi in lacrime, tossì forte, sputandone fuori una buona parte: zampillavo come il putto di una fontana barocca.
- We bibi, brusa l'alcol?
- No è solo tosse, pensavo che fosse più forte.
Ricordo che sul bancone, quella sera, vennero posati ben tre Latte di suocera, per me. 
Un uomo molto silenzioso, che sedeva sempre in fondo e che gli altri chiamavano Ritornello, esplose in un sonoro: - We bibi, te cì màt, putèna Madana!
Andandomene dal bar dissi ad ogni persona, sopratutto se donna, le prime quattro cose che mi balenavano in mente sul suo conto. Ruppi amicizie, presi uno schiaffo sull'orecchio da non so chi e distrussi legami che la mia famiglia tesseva da anni, oltre a riceve un numero imprecisato di autorevoli e pertinenti osservazioni:
- Ma sei ubriaco?
Mi pareva di esser stato molto simpatico, brillante, di aver ballato forse, i racconti del giorno dopo, però, mi riportarono una triste scenata alcolica da paesello.
Ma pensando a quella sera, dopo lo sfogo, tornai sul luogo del misfatto: al tavolino sul retro dove era partita la serata. Il grigliere, pensieroso, fumava la sua sigaretta sfogliando il giornale di fine turno.
- Tan fè basta? Tan vid che cì de culor dla droga?
- Io devo capire se c'è un senso, perché vedi, dovrei star male, stan male tutti, invece a me non me ne frega proprio un cazzo mica…
- Là và par tè, ma pianzeret nèca te, stà bon va là...
Mi trascinai davano allo specchietto del bagno, un pallido omuncolo apparve al mio posto: un tossico, un essere viziato dalle sostanze, coi capelli scompigliati, se ero io cazzo, ero andato oltre.
Raccolsi tutti gli amici di nuovo sul retro, mi sarei esibito nel salto mortale all'indietro dalla panchina direttamente sul cemento della balera.
Il mio obiettivo era sicuramente chiudere la serata all'ospedale, fu lì che arrivò Richi. Voleva propormi un inaspettato concerto, c'erano i Lagwagon al Pala de Andrè, a Ravenna, quello che vide gli rovinò improvvisamente i piani.
- Che cazzo stai facendo?
Presi la bici, Richi cercava di trascinarmi via, dritto per i capelli, dicendomi di scendere, io rispondevo che non sapevo da dove sarei dovuto scendere, poi mi buttai a terra facendo resistenza non violenta.
Da casa mia alla festa c'erano quattrocento metri, ma ci misi un'ora intera a coprirli, cadevo dalla bici e vomitavo, e prendevo le tagliatelle intere dal vomito e le tiravo dirette addosso a Richi, ridendo su come fosse una cosa giusta. 
Credo che vomitai una decina di volte, pensai di morire, giurai di non bere mai più, ripensai di morire e mi dissi che in fondo non mi importava. In fondo stavo bene.
Non potrei qui definire Richi, era una figura protettrice, a volte quasi paterna.
Mi ritrovai appoggiato al muro di casa, Richi nascose la bici e mi disse di suonare, ero nella fase contemplativa della sbronza, mi sentivo connesso agli altri e agli alberi, parlavo quasi come un poeta del dolce stilnovo:
- Grazie Richi, buonanotte, ritirati pure, ombra quieta della sera. 
Pensavo di vedere gli alieni, appollaiati sui pini, chiedevo loro perché non volessero essere pacifici con gli uomini, che erano invece esseri naturalmente buoni e sciocchi, che si innamoravano e poi cercavano di non stare troppo male. 
Il cielo su di me era la bocca dell'Inferno, solcato da onde colorate, aurore boreali da giardino, io mi toglievo le scarpe, la gola arrossata dagli acidi, ma felice, in comunione col mondo e finalmente con me stesso. 
Decisi che avrei vissuto da quel punto la mia vera esistenza, poi vidi l'ora, ed era la mezza, io avrei detto almeno le quattro.
Le mani in tasca non trovavano chiavi, le avevo perse, oppure lasciate in cucina alla festa, bussai senza pensare al dopo.
Mio padre mi aprì la portafinestra - Cosa hai fatto? Hai bevuto? Corsi dritto in camera, mi sentivo la cosa più lercia del mondo, ma scivolai sotto le lenzuola in cerca di pace.
Mio fratello, stordito dall'odore di alcol e dal rumore, veggente del futuro, si alzò a sedere sul letto accusando
- Sei ubriaco, sei sbronzo marcio
Non riuscì a rispondergli e rivomitai tutto sul copriletto, poi arrotolai verso i piedi e mi rimisi a dormire.

Intanto mia madre arrivava con spugne e secchi, e nel corridoio, mio padre, bestemmiava il signore.


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