sabato 28 gennaio 2012

Cassetto n°15


Chiudi sessione.
Abitare nella catapecchia ha riallineato grandi cose, le falene, il letto sformato, i grandi muri. I fantasmi  dispongono gli scacchi, sciolgono i nodi a schiena, reni, polmoni molto meglio della lettura, e dell'analista.
Non so se riuscirò a lasciare questo posto o lui a lasciare me. Perfetta simbiosi di mattoni, ossa e riduzione dell'ideale, nel modo in cui scrivo, penso, parlo e vivo.
La solitudine è riduzione dell'ideale.
Apri sessione.

lunedì 23 gennaio 2012

Cassetto n°14


Cerco da qualche parte la mia intelligenza, non c’è, se n’è andata.
Fisso un punto della parete, fra il termosifone e il televisore, ha la consistenza della realtà e sussurra piano quello che non riesco a capire.
Ci sono alberi soffocati dall’edera ma la sofferenza delle piante non la posso immaginare.
Vorrei parlare una lingua trasparente e fare gocciolare i miei pensieri, farli assorbire dalla terra, farli evaporare al sole.
Ci vuole un’idea geniale per giocare con la felicità.
Un signore raccoglieva delle biglie, le posava sulla terra e le contava, poi ne cambiava l’ordine e  il numero rimaneva sempre lo stesso. Questo lo rassicurava e pensava che fossero più giuste di lui che non si poteva contare. Pensava ai gesti stupidi, alle parole sbagliate, ai sentimenti sconvenienti, all’irrazionale umano che porta all’errore, all’errore che rende il reale diverso dall’astrazione. Gli errori, un mondo di errori, che fanno valer la pena di vivere e di pensare. Gli errori che non sono sbagliati, forse sono scarti. Le contraddizioni.


Anita.

sabato 21 gennaio 2012

Cassetto n°13


Il telefono color crema è accanto alla abat-jour, vicino alle sigarette e alla nostra foto, sulla rubrica verde dagli angoli distrutti. Tu chiami qui, chiami casa per raccontarmi tutto. 
Vuoi dirmi di quanto sia bella la città, sei andata a trovare i ragazzi, ma io non me la sentivo di affrontare il treno, i pullman, poi il traffico e gli ambulanti coi chioschi al sole. Bibite troppo calde e panini surgelati.
Non ce l'ho fatta davvero a venire, scusatemi. Ti aspetto qui, a casa, nel giardino, con il tubo dell’acqua in mano e tu tornerai, distrutta e felice e mi porterai centinaia di foto dei ragazzi e di voi che ridete a Piazza del Campo. La batteria della Sony digitale quasi si scaricherà per tutte le immagini che vorrai mostrarmi, le vedrò e saremo felici di non aver fatto questo viaggio assieme, felici di esserci aspettati e di poterci raccontare qualcosa.
Ora non posso risponderti, sono occupato, anche se sento il telefono color crema che squilla. Vuoi dirmi dei colori della Toscana, l’oro del grano, il rosso di quel vino forte e intenso. Vuoi dirmi che stanno tutti bene e che la città è uno scrigno di tesori, di cultura e l’aria, la sera, profuma di caprifoglio ed estate.
Ci sentiamo domani, va bene, amore? Io ti aspetto. Aspetto la tua telefonata e già il cuore mi scoppia di gioia per quando mi dirai che ti si è spellato il naso, che ti hanno guardato inorriditi perché al supermercato chiedevi una sportina. Quando mi descriverai come sono sicuri i nostri ragazzi nel mondo fuori, parlerai di questo e quel ristorante e della polvere e dei colori del Palio.
Ci torneremo presto insieme in Toscana, te l’ho promesso, e vedremo Siena, San Gimignano e Volterra. Ci perderemo in tramonti e osterie, sarà dolce farmi guidare da te. Non a Firenze, che già ci siam stati, gireremo solo città medio piccole e dormiremo in masserie ristrutturate e stanze con prima colazione.
Ore 13:30, terzo giorno. mi richiami. Scusami, capita raramente che non ci si senta per tanto tempo e sei un po’ arrabbiata, un po’ sorpresa dalla mia assenza. Hai ragione, ma sai, la pigrizia è un panno caldo che mi rallenta e mi sto godendo un po’ di questa meritata solitudine.
Ore 15:30, il telefono squilla ancora. Non sarai mica in ansia? Ti avevo detto di staccare un po’…sai è incredibile, in due giorni abbondanti di solitudine, di quanti lavoretti e riparazioni mi sono accorto la casa abbia bisogno. Sono talmente tanti e microscopici che, confesso, mi accorgo di non sapermi organizzare. Partirò dal giardino, ho sempre adorato i lavori in giardino. A proposito, appena ti sento ricorda ai ragazzi di tenersi un week end libero a settembre per la grigliata in pineta. Non voglio assolutamente rinunciare alla nostra grigliata in famiglia.
Di cosa vorrai parlarmi? Forse della gente e delle stradine medievali, dei bambini che corrono coi fazzoletti delle contrade al collo e di Luca, nostro figlio, che per poco non fa a botte con un enorme turista inglese per una spallata data passeggiando. È sempre stato un torello, Luca.
Ore 18:00. Il telefono squilla ancora. E squilla, squilla.
Mi manchi, ma ti sento debole da qui, da dove mi trovo, in giardino, anche il telefono color crema si sente appena.



lunedì 16 gennaio 2012

Cassetto n°12


Sentivo di avere pochi minuti, forse secondi, mentre l'umidità mi avvolgeva e se è vero che ogni battaglia si risolve in attimi, sarei stato sciocco a non tenerne conto.
Lo scudo, troppo pesante, cadde di taglio nel terriccio, lasciando un profondo solco verticale, dal quale, ora giurerei, parve uscire del sangue caldo e denso. Il ginocchio sinistro cedette, affondando, poi, proprio in quel taglio. Mi acquattai tra le colonne in rovina a prendere fiato, i muscoli tesi delle cosce fletterono e avvertii una scossa piacevole alla spina dorsale. Forse mi stavo liberando del peso maggiore: l'umana speranza, perché questo era il prezzo dello sfidare gli dei, scontavo la condanna di essere in parte figlio loro e in parte figlio di un pescatore. Constatai che le mie risorse erano al minimo, soprattutto dopo l'ultima marcia fino all'Ade, dove avevo perso i migliori compagni.
L'antro rifletteva la pietrificata disperazione dei vivi e di quelli che lo furono, mentre le sensazioni diventavano materiali, come lo era la delusione di una donna, abbandonata da Poseidone, uccisa e tramutata in Gorgone. Il dolore di Medusa fluttuava in lamenti, impercettibili, che scorticavano l'udito, non percepivo speranza in quell'aria e, per la prima volta, ripensai alla profezia delle streghe: non sarei tornato al mondo dei vivi, non avevo monete per il traghettatore nella mia borsa.
La consapevolezza del luogo mi suggerì di usare meno gli occhi, finora tutto il mio mondo, ora dovevo sentire l'aria, i suoi spostamenti, i fruscii, perchè lei era ovunque.
Mi rimisi in piedi con uno scatto, la mano strinse la spada, era il peso del tradimento, forgiato da mio padre nell'Olimpo, ero pronto all'attacco, che sarebbe stato una lancia, un'azzannata. Usai lo scudo come specchio per scovare la bestia appostata tra le colonne e le rocce umide del tempio, al suo interno la parete rifletteva. Fasci di luce filtravano fiochi sopra la mia testa, appena sufficienti a scorgere i profili delle statue. Per pochi secondi godetti della sensazione di equilibrio della caccia: trovavo conforto nell'idea di due avversari, impegnati a  non soccombere, animati dall'unico scopo di fermare il cuore dell'altro. In questa arte non esisteva il compromesso, la pietà, l'inganno, c'era solo l'attimo.
Ad un tratto notai il brivido di un bagliore nello scudo, lei si stava lanciando dal soffitto in una parabola ad arco, velocissima, saettava a pochi metri alle mie spalle. Riuscii a scansarmi di un centimetro e frustò accanto a me la sua lunga coda di serpente che mi lacerò la carne all'interno del braccio sinistro. Sangue caldo scendeva sul gomito, mentre realizzai che non c'era umanità nel suo movimento, come se aria, materia e sostanza le fossero estranei. Non avvertii dolore, avevo troppa adrenalina in corpo e, per un istante, la vidi di spalle, davanti a me. Un'elaborata corazza a squame color madreperla, parte integrante del corpo, si irradiava dal centro della schiena fin attorno le spalle. Giuro che non la notai voltarsi, ma era già di fronte, innaturale. Feci la mia mossa, mi abbassai e con il possente scudo la caricai con tutta la forza delle gambe, colpendola forte al busto, per farla retrocedere, ma non si mosse di un palmo. Era solida, parte integrante della caverna che la ospitava, e capii che la dannazione le aveva donato risorse illimitate. Provai ammirazione per il suo essere la più dotata, seppur l'unica mortale, tra le sorelle Gorgoni. Nello scontro diretto non c'era speranza, ammisi, per cui retrocedendo ripiegai tra  le colonne, correvo veloce, ferendomi i talloni tra gli speroni in selce, mentre la sua furia esplodeva e si gettava alla mia rincorsa, non udii alcun suono, né grido; il silenzio era la sua arma più inquietante, ed era inoltre oggettivamente troppo veloce. Scattai sotto un masso e mi ci accovacciai a riccio. Lei si innalzò, meccanica, sopra di me, nell'alto della caverna, per poi schiantarsi sul mio corpo di ossa e tendini, io badavo bene a tenere sempre lo scudo tra noi, e la lama, pronta a scattare subito dietro, come l'aculeo dello scorpione. Si buttò sullo scudo, l'urto fu portentoso, una mandria di cavalli selvatici, ma l'ira l'aveva resa per un attimo avventata. Riuscii a contenerne la forza e a farla scivolare di lato sfruttando il tempo morto, bloccai il suo corpo nell'asperità tra due rocce aguzze puntellandomi con lo scudo e appoggiando la schiena a un masso, e infersi un unico colpo lungo. Mirai alla gola, tenera, umana, e la lama entrò sicura, per metà della sua lunghezza, sopra la corazza del petto, mentre due fiotti neri di sangue sgorgavano dalla testa, uno velenoso, l'altro con il potere di ridonare la vita. Ci fu un rumore secco di stacco e vidi la testa cadere all'indietro. Le serpi non si placarono, contorcendosi cercavano di azzannarmi più di prima. La testa non morì e la chiusi in una sacca di cuoio, senza poterne vedere gli occhi, che, dentro di me, sentivo bellissimi.
Mi accorsi solo ora di aver ucciso qualcosa di veramente umano, e mi piombò addosso una stanchezza infinita e sentii di aver perso me stesso. A nulla era valsa la fredda giustizia degli dei e della nobile Atena, che, quella notte, guidò la mia mano.

sabato 14 gennaio 2012

Cassetto n°11



Elia non scelse la comodità e traslocò in campagna, prima volta da solo, dato che la casa era sfitta, pensò di occuparla un'estate. Arrivò al viale, capì che il vero valore stava nei noci e nei gelsi centenari, ettari di campi brulli, viti, susini. La spoglia dimora di suo zio, piantata come un dente grigio nella pianura, invecchiava in silenzio, col mondo. Elia passò con lo sguardo le nuvole nel cielo terso: nessuna discontinuità con la facciata, gli intonaci si accartocciavano, staccandosi, i legni si fessuravano. Una scheggia nella carne viva
Salì le scale, raggirò il difetto della serratura, tirando la maniglia mentre ruotava e clic! Ecco..una sensazione forte, odore acre di stufa e cenere, il rifiuto salì come conato, perchè alcune cose ti appartengono troppo, per farti star bene.
Aveva bisogno d'aria, se ne andò nella stalla, e tra i rottami, scritte vecchie di quindici anni: Amore ++, con un cuore sbilenco, ma grosso! Ora Michela è madre, mentre lui, ancora alla linea di partenza, si sentì marcire. Tentò pure di imbiancare le pareti, impossibile, la pittura latte diventava grigia, passando dal pennello al muro. Era agosto e il sole soffocava il pensiero nell'intonaco.
La casa resistette ai suoi deboli colpi di bacino, sforzi vani, acqua assorbita nel terreno di agosto.
Una settimana / Due settimane / Tre settimane
Un mese buono a la prospettiva cambiò, decise di assecondare la casa, ne accettò i tempi. Via tutto il superfluo e ricominciò da un punto, semplice, abitò, senza scopo. Mangiava se aveva fame e si regalava lunghe osservazioni dei gatti, sull'aia.
I rumori notturni, nel solaio e nei campi intorno, furono lugubri litanie, riaffiorò il dialetto forte del nonno pazzo, l'odore del vino da quattro soldi, e intanto lui, nel suo letto, si chiese perchè proprio qui? Non chiuse occhio, neppure una notte. L'introspezione si mise nel gesto, che racchiude già ogni risposta, andava eseguito al meglio.
Elia fece apnea nel mare dei dettagli, ogni particolare diventò tutto, si drogò di solitudine, della sua solitudine che era riduzione dell'ideale...
Elia, prima di ripartire, scattò una polaroid della vecchia casa, tra gli alberi, al sole di agosto di una campagna che urlava silenzio fin dentro la sua testa.

martedì 10 gennaio 2012

Cassetto n°10



Marzo, Rimini al tramonto. Per la prima volta me ne sto seduto fuori dal bar Paradise, sono passato di qui altre  volte a far colazione, ma oggi ho deciso di sedermi. Non ordino nulla e davanti a me una sigaretta brucia nel posacenere, in mezzo ad altri mozziconi. Attendo una persona e fingo di star qui da ore a leggere il mio libro, osservo i clienti, basta. 
Credo che i bar di bordo città, rappresentino un osservatorio privilegiato dell’umanità più vera e colorita. Mi piace perdermi nella gente, stare solo mentre eseguono i rituali,  lasciandomi assorbire dalla consuetudine, dai tentennamenti della vita. In questo bar, ad esempio, nessuno parcheggia negli spazi assegnati, lungo il marciapiede, sarebbe un disonore, le auto vengono lasciate in mezzo alla strada con le quattro frecce accese, o neppure quelle, il motore può essere in moto o meno, non importa. Furgoni e minicar in seconda, terza fila, sportelli che sbattono, gente che salta fuori dagli abitacoli come se scottassero, musica ossessiva dalle autoradio. 
La vita in scena, sul palco, solo noi: muratori, rappresentanti, avvocati, è l’ora dell’aperitivo e tutti tornano trionfanti, col loro Spritz o Americano, mentre la mano fruga vorace nelle tasche dei jeans alla ricerca del pacchetto, del cellulare o di chi sa cos’altro. Sono momenti in cui pare non debba accadere niente, e puntualmente si realizza qualcosa: 
Arrivano due auto, una berlina lucida e scura e un piccolo Fiorino bianco, “imbianchino Nanni”, si legge sulla fiancata. I due parcheggiano male e scendono all’unisono su binari paralleli, che li proiettano dentro il locale, vestono abiti diversi, profumi diversi, storie diverse.
Tutto accade in un attimo, l’operaio esce subito, accende una MS, e con la fretta nel sangue, sovrappensiero, barcolla e si dirige verso la grossa Mercedes S scura, posteggiata davanti al furgoncino. Non se ne rende conto, ha lo sguardo perso, è un gesto automatico, la mano scatta sicura sulla maniglia e fallisce. Si sente solo un clic secco, vuoto...echeggia per qualche secondo mentre tutti si fermano. Lo osserviamo e lui, con lo sguardo, è oltre il tettuccio, guarda dall’altra parte della strada. Il tempo si ferma, sorrido e tiro l’ultima boccata.
Il sole è basso, dietro ai palazzoni cementificati, rimastico quel che ho appena visto mentre schiaccio il mozzicone.
cosa siamo? Quello che è, quello che vorremmo? sicuramente siamo più desiderio che  altro, ma non solo; c'è quella sottile linea di luce che parte da sotto la porta e acceca in piena faccia... Talmente evidente da non poter esser osservata e siamo l’inaspettato scatto verso lo sportello di una macchina più comoda. Di una vita diversa”

È un frammento, lui torna alla sua auto, senza imbarazzo, sale e abbassa il finestrino, la cenere cade fuori. Io mi alzo e vado via, per oggi basta. Basta, grazie. 


giovedì 5 gennaio 2012

Cassetto n°8




Non credere mai a quello che scrivo
è cibo, per la mia noia
il vecchio, qui accanto a me, al bar,
mi fissa e fuma, solo, 
ha occhi spenti,da prigioniero.
Tornavo sui miei passi, mentre pensavo
chi muore, mica ne ha voglia”
allora chiamo mio padre, passa il tempo
non riusciamo a parlare, vorrei dirgli 
“senti qua..”prestargli del tempo.
ma non ho niente, neppure per me
dovrò rubare, come ho sempre fatto.

martedì 3 gennaio 2012

Cassetto n°7


Mi sveglio, il letto troppo caldo, umidità nell'aria e una sconosciuta accanto a me, che vuole parlare.
Ho i postumi di una sbronza violenta, la stanza fa schifo, tanfo di alcol ovunque, tre preservativi a terra, forse c'è del vomito, capisco, nell'ordine, di non amarla e di aver bisogno di una doccia.
Lei intanto ha iniziato a parlare, ha avuto una vita difficile, è una depressa scoppiata, ancora una volta, se potessi tornare indietro lo farei, anche per lei, ma non si può e penso già a farle del male.
"ah...si...studi architettura, senti...vuoi fumare?"                                                                                       vuoi morire?
L'Alba è passata, i sogni e la sbronza pure, ma c'è sempre lei ad aspettarmi quando mi sveglio, lei, capelli neri, rossi, biondi, truccata, banale, impegnata nel sociale... è sempre lì. Penso al serramanico nel cassetto del mobile dello studio, la vedo dimenarsi mentre le preparo un trucco permanente su occhi e bocca, inciso con la lama, sento tutto quello che potrei farle, e mi piace.
A volte provo compassione per la loro stupidità: puttane che entrano in casa di un uomo di 35 anni, non possono e non devono pensare di passarla liscia. Perché poi dovrebbero?                            perché sono ancora single, secondo te?
Intanto lei si sta lavando in bagno, stropicciando i miei asciugamani da cinquanta euro con il suo inutile rituale di pulizia, non ha rispetto di me e dei miei spazi in casa. Le preparo il caffè e lo zucchero piano:"ehm...vuoi del caffè? Io devo lavorare!"
"certo, ma dove lavori? Me lo dai uno strappo in università?"
"no, guarda, lavoro in casa, scrivo...e sono in ritardo di mezz'ora sulla tabella, capisci, i capi aspettano il libro, quindi...                                                                                                                                     ora vai via
Esce dal bagno, vestita e prende un libro a caso dalla mensola, proprio il mio ultimo uscito, guarda sul retro, vede la foto: "nooo, ma sei Alberto Adami? noo! ma ho scopato con te? Una mia amica impazzisce per tutto quel che fai!" 
"ah, dai,si?"
"io ho provato a iniziare "Le ossa dei vivi", ma, scusa, non sono riuscita a continuare, sei troppo negativo."
"scrivo per come vivo: male"                                                                                                        Vattene
Mentre maneggia il libro, come fosse una pochette Fendi, mi accorgo di essermi ormai scordato di Dio, il pugno sinistro è serrato, le nocche bianche, esangui. La vedo stesa nuda nella vasca, con la testa aperta. Il mio sguardo si perde nel rosso cupo sparato sulle piastrelle appena pulite, una ragnatela di goccioline vermiglio, il rosone di una cattedrale spagnola. "dicevo, devo lavorare...è tardi, più di prima!"                                                             salvati ti prego
lei si raccoglie i capelli, ha un collo lungo, un collo perfetto si spezzerebbe con un vento troppo forte.
"ok ok, guarda controllo una cosa veloce veloce su internet, ah e ti chiedo una sigaretta, ih ih!" squittisce
"NO, non hai capito DEVO scrivere!"                                                                                                                                                          è fatta
"Finito, guarda, ora spengo, stasera sushi?"
"ok, basta, aspettami qui, vengo fuori con te, ma devo prendere una cosa nello studio"

Stacco il telefono.