martedì 21 aprile 2015

Cassetto n°152

Generato dal sudore del suo stesso letto prova a tirarsi su con le braccia. Il letto è un patibolo tiepido che odora di viscere e lievi echi di lavanderia strappati ad altri corpi.
Nel letto lascia ogni ora una chiazza di sudore con la sua forma e piccoli getti d'urina, il suo sudario. Lo devono cambiare, girare, infagottare, pensa allo spreco di tutto quel cambio, a tutto quel bianco sporcato, ma li vuole lasciar fare, si sente utile al loro lavoro.
Ogni ora loro  passano, gli prendono i valori, annotano tutto, svuotano le sacche, i drenaggi, l'urina, mettono tutto in contenitori graduati, prendono nota: la sua storia, i suoi liquami.
Si osservano tubi che portano dentro e tubi che portano fuori, non si devono otturare, deve scorrere o si muore.
Pensa di essere una casa, una malsana abitazione stagnante, che scarica direttamente in pozzetti interrati ripieni e nauseabondi. Un edificio un tempo lindo e unitario, ora spinto ai margini della prima periferia suburbana, non rassegnato, non crollato, ma solo. Le crepe lunghe come vene e tendini sulle pareti.
Aveva due belle gambe una volta, fondamenta tornite, sode, adatte alla corsa e alla salita in montagna, ora le osserva, di sbieco, paiono due cosce di lesso avanzato nel piatto della domenica, un pollo bollito buttato in un piatto troppo bianco e grande, ecco cosa diventa qui. Persino i peli hanno perso dignità, radi lunghi e macabri si piegano al contatto con quel tessuto liso e quadrettato.
Si vergogna della propria magrezza col figlio.
La stanza è tagliata dalla tigratura delle persiane, un sole al disinfettante di aprile colora senza riuscirci arredi ospedalieri e arredi umani. Tutto ha le tonalità della pera frullata e del pistacchio, una gelateria cromatica di quart'ordine: ecco le pareti, lavabili lucide e bugnose come la crosta del gelato al cioccolato con le mandorle.
La faccia del 714 spicca nel vuoto, il novantenne Piero, fracassato con l'auto contro un palo, con l'ematoma color prugna dalle affascinanti cromature violacee. gli altri due ospiti della stanza, come lui, stingono al sole. Tumore al colon, tumore allo stomaco, blocco intestinale con occlusione totale e rottura delle costole con trauma polmonare e trauma cranico, il menù del quartetto.
La notte suo figlio  lo assiste, muto, maledicendo la poltrona bitorzoluta e la sorte avversa, sente di essere buono, non riesce a crederci abbastanza. Non pensa troppo a lui, ha pur sempre trent'anni, non gli importa. 
La notte è un susseguirsi di attimi, un patimento di aria, respiro, corpi che si svuotano senza pudore per la vicinanza e il gusto altrui. Ogni punto potrebbe essere quello giusto per riposare un po, strappare del sonno all'orologio, ma poco dopo non lo è più. Passi felpati nel corridoio, solerti e svogliate assistenti che accelerano in prossimità delle porte per non farsi beccare, per non essere richiamate. Ostinate solo a far mattina, sui loro supporti in gomma, a far colazione col buono dell'ospedale e ficcarsi nei proprio letto d'appartamento.
Quella lunga schiena lucida di lucertola, il corridoio.
La notte è l'insopportabile e inquietante brusio incalzante degli uccellacci posati sul grande albero che svetta sul lato nord. Lugubri richiami diurni, lo colgono con gli occhi grossi e sbarrati, a fissare il soffitto a scusarsi con tutti, col  figlio, con la sorte e con gli alberi.