lunedì 1 aprile 2013

Cassetto n°85

Il treno sta frenando, non so a che stazione siamo, la sento svegliarsi, la sua mandibola si muove, sbadiglia o manda giù la saliva: 
-é stato proprio, bello questo viaggio!-  Lo biascica piano, impastato tra i denti
-a me un po' dispiace, non aver trovato del tempo per uscire dalla città, vedere fuori, vedere solo le cose che vedono tutti-
-devi sempre essere scontento, fuori da cosa?  Fuori da Belgrado? Coglione!-
-no, così, era per dire-
Atterrati poche ore prima, lei appoggiata a me, la testa mi preme sulla clavicola, nel naso l'odore del suo shampoo, odore di miele.
Mi concentro, cerco di decifrare cosa dice pagina tre di questo romanzo, David Foster Wallace, talmente geniale, che non capisco una riga, vorrei già buttarlo dal finestrino, ma è davvero troppo geniale.
Sento la sua testa levarsi da me, mi fissa, gli occhi piantati sull'herpes al lato del mio labbro. Mi stacco dalla pagina, la guardo. Sono un pò in imbarazzo
- senti, vorrei che dopo questo viaggio le cose cambiassero -
- le cose?  Che cose?-
- noi, l'equilibrio delle cose tra noi, cioè basta pensare al nostro tempo come se fosse finito, da riempire, vorrei fosse un susseguirsi di cose, senza bisogno di marcare dei momenti-
- io non lo faccio!-
- vorrei che noi due fossimo e basta, un tempo, senza pause, dimmi se capisci-
- credo di si!-
-no, tu prendi tutto come se dovesse finire, sempre-
-le cose devono finire, noi finiamo-
-no, noi non finiamo brutta testa di merda! Noi ora siamo e restiamo!-
Mi paralizzo a guardare fuori, ha toccato punti più vivi di quanto volesse. Sono oltre, troppi metri dal finestrino, ogni cosa che vedo, va a sbattere contro quei binari, poi oltrepassa quel punto, adesso.

- devi smetterla di vivere come sempre appeso a un filo, ti fai del male e ne fai a me!-
Cerco con lo sguardo qualche casa, ma non ce ne sono qui, solo terra e viti, al massimo pozze di pioggia.
Il treno frena, siamo immobili tra Bologna e non precisate località della linea adriatica, campi geometrici, non si muove nulla. Tiro la cerniera dello zaino, così, per fare qualcosa, è incastrata dal sale e dalla salsedine, bloccata. Provo a tirare più forte, poi lascio perdere. Allora la guardo negli occhi. Mi guarda, in silenzio, la bocca contratta, sta per parlare ma tace, fine, la linea della sua bocca lascia intravedere i due incisivi, come chi pensa o come chi beve.  Vuole sapere cosa penso, io so cosa penso, ma non so dirlo, non ancora.
Poi un botto, un treno merci, lunghissimo, carico di furgoni bianchi, sfreccia in direzione opposta a noi, un bianco accecante, infiniti musi di camion, stemmi, fanali coperti da plastiche protettive, incontro a noi, contromano.
Venti, trenta o forse quaranta, perfetti, camioncini in linea, come animali o soldati dell'esercito Bianco, sfiorano la linea del nostro mezzo, tagliano con la loro sagoma gli alberi da frutto, ne vedo appena le cime.
Poi finisce, altro botto, fine del suono, torna il verde, ci mette poco. 

-io ora so che tu ci sei- mi dice
Il suo tono è cambiato, la sua solita voce, più distesa.
-ma cosa guardavi?-
-ah. Tutti quei furgoni, erano infiniti. Chissà perché, erano tanti...-

Si appoggia a me, siamo vicini, vicini come non siamo mai stati. Riparte.

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