mercoledì 13 novembre 2013

Cassetto n°107


- Svolti dietro l'hotel, troverà una macchina, deve seguirla, saliranno tre persone, le indicheranno la strada per un altro hotel, poi loro scendono e salgono sull'altra macchina che l'ha seguita e sale lui.
- Perchè tutto questo?
- Perchè lui la mattina è di malumore e vuole stare da solo
- Ah, perfetto
- Lo deve portare a fare colazione, non gli chieda nulla, non lo guardi, noi la pagheremo dopo, domande?
- No, nessuna
Aspetto immobile, col motore al minimo, un'orologio questa Ford, stringo il volante e respiro lo smog del centro, non devo fumare! 
Sale il cliente, 150 chili di risveglio mattutino, sbuffa, ruota su sè stesso, con un ammirevole slancio di fiducia si lascia cadere all'indietro e siede con un tonfo, le sospensioni del taxi cigolano.
- Cristo non ci posso credere, si è buttato! Penso
- Deve sapere che muoio se non faccio almeno tre colazioni, poi morirò proprio per questo motivo, mi porti da Bender & Son Grill e Bar sulla tredici...sa dov'è?
- Subito signore

Cosicchè lo trasporto verso la sua colazione, che poi sarà l'ultima, solo che né lui né io possiamo saperlo. 
Mi parla per almeno sette chilometri col suo accento morbido del Mississippi: la tuta grigia in acetato con le bande laterali rosse fruscia ad ogni movimento, indica delle case di sua proprietà, il miglior ristorante di cannelloni del quartiere. Gli anelli alle dita, gioielli faraonici, pietre, perle di sudore ed occhiali a lente grigia, montatura in foglioline d'oro.
Guido regolare nel traffico del mezzogiorno di Manhattan, tutto liscio come un qualsiasi lavoro. Sappiamo ormai tutti della sua dipendenza da barbiturici e tranquillanti, stimolanti e anfetamine, le riviste da parrucchiera delle nostre mogli, aperte in soggiorno ce l'hanno detto in ogni modo e maniera, le foto sono sgranate, amatoriali. Ma, le dico, quell'uomo soffriva davvero, e non tanto come soffriamo tutti, quotidianamente, quell'uomo soffriva moltiplicando il dolore in ogni atomo, la sua anima bruciava scoppiettando nel sedile posteriore della mia Ford Escort giallo paglierino.
Soffoca strozzato nel corpo di grassone incartato in quel cellophane di tuta che si mette per sudare e suda.
- Lei non ha idea di quanto ci si senta soli in questo buco di culo di terra, ha dei fazzoletti?
Porgo al Re un pacco di Kleenex, che non mi restituirà mai, rimetto le mani sul volante appena in tempo per schivare un giovane asiatico che ha deciso di morire giovane
- Doveva stenderlo quel muso giallo! Non siamo andati in guerra per mantenere i figli dei comunisti annidiati tra noi! 
Non lo guardo mai direttamente, sento di non averne lo stomaco, ma non posso fare a meno di concentrarmi sui suoi capelli: nello specchietto centrale gli incoronano il volto, che è una maschera, un guantone da baseball marcio sotto la pioggia.
Un faccione che ti mette direttamente nella condizione di provare empatia, un legame esofageo, umano. I capelli sono l'unica cosa ancora davvero giovane: forti, vitali, lucidi, sempre perfettamente pettinati, come ai tempi di Love me tender o Hound dog, un ciuffo folto, pomposo, grasso e pieno di un fiero e rigoglioso crine del sud.  Solo che, ora, una folta peluria sbuca dalle orecchie piantante ai lati delle guance gonfiate a burro d'arachidi e frittelle con sciroppo d'acero e scoiattoli imburrati.
Elvis è una sauna umida chiusa in un guscio umano a pressione crescente, non è bello vederlo grondare così, copiosamente.
- Io non so cosa mi è successo, dopo Priscilla avevo sempre fame, e paura di tutto. Lei deve capire: una fame costante, mangerei le persone se potessi, per farle sparire, le persone ora mi spaventano a morte, capisce?
- Ci penso sempre anch'io, ogni volta che ne sale uno...
Non mi ascolta, non è abituato

- La realtà è che questa fame mi distruggerà, ma prima di morire, io mangerò la terra, caro amico. Io porterò con me molta più merda di quanta vi faranno credere caro amico tassista!
E allora per la prima volta incontro i suoi occhi, dietro le lenti, li sento puntati su di me, dentro di me.
Quest'uomo è un martire, mi sento ripetere, quest'uomo sta davvero male perché altri uomini possano sentirsi vivi, onesti lavoratori efficienti, è un bambino che gioca da solo coi tranquillanti..
Odio la gente, la loro presenza accanto alla mia, penso che se esistesse un posto nel mondo davvero lontano da tutti, dove l'uomo non possa aver messo piede, lo comprerei stamattina, poi credo che lo mangerei, si, coperto di sciroppo d'acero e cannella.


Non posso che annuire ad ogni passaggio, ad ogni curva e fermarmi davanti alla meta, il Re non paga mai, paga altri che pagano per lui. 

Mi prendo mezza mattina libera, quel passaggio mi lascia solo e svuotato, oltre a regalarmi un'enorme chiazza di sudore bordata di un alone biancastro salino sull'alcantara blu del sedile posteriore e non ci metto molto a capire che quella sottile chiazza e storiella annessa, possono fruttarmi almeno quindicimila dollari in più l'anno, per i dieci anni seguenti. 
Il giorno dopo faccio cucire a mia moglie una toppa grande come un palmo in quel punto, con la faccia del Re impressa sopra, i turisti e il newyorkese vanno pazzi per questo genere di cose, tipo:
 - Ah si, era proprio qui poco prima di morire?
Non credo che il Re sia diventato una cattiva persona, né che lo sia mai stato prima, non è sparare a due Vietcong a farlo. Credo solo che stia già morendo. La consapevolezza della fine ci rende avidi, ci rende bambini e il Re ci scalcia contro, ad ogni sorso di cose, ad ogni boccone, mentre sgranocchia una pannocchia ben rosolata coperta di sale e burro e un aiutante gli mescola il caffè con panna, nella saletta che ha fatto riservare per sé, al Bender & Son Grill e Bar sulla tredicesima.

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