martedì 5 novembre 2013

Cassetto n°106

Avevo solo ventitre anni e mi accorsi di non sopportare più la mia voce, mentre cantavo, dovevo smettere perché, proprio mi dava fastidio. 
Più tardi, a casa, feci altri esperimenti, in camera mia, provai a leggere la copertina di una rivista di mia madre, ad alta voce, era: Autunno ed influenza, guarire con gli infusi.
Proprio non ce la facevo, non potevo più sentire il suono delle mie parole. Aprii la bocca con un gran sforzo e, ma che....niente non riuscivo ad emettere suono, terrore e basta.
Pur essendo intelligente, per la mia età, pur dicendo sempre cose sensate e vere, non sopportavo il mio tono, il mio timbro, l'inflessione. 
E allora tacqui. Stetti sempre zitto, da allora.
I primi tempi furono facili, tutti mi cominciarono a chiedere perché tacevo, cosa mi era successo, cosa avevo fatto.
Alzavo le spalle, facevo cenno di niente, come spiegare agli altri che non sopportavo più la mia voce?
Feci tante visite mediche, sano come un pesce, smisi presto di cercare risposte nella scienza...guardai dentro di me:
Nella mia testa parlavo con le voci degli altri, di mia madre a colazione, mio padre al lavoro, mia sorella Elettra la sera, prima di cena, con la voce degli alberi che grattavano la finestra, mi sintonizzavo col cuore di chi riposava di sotto, nel suo sonno.
Il bigliettaio del cinema Astra, dove mi rifugiavo ogni giovedì sera, aveva una della voci più simili a quella che avrei voluto fosse mia, un giorno, lo inclusi tra le mie voci. 
Ora potevo parlare sempre, meglio, e di più, non avevo bisogno di altre voci, della mia, in particolare.
Avrei temuto troppo, ad usarla, quella voce, era lontana, intima e sepolta, quella voce mi si stava disappartenendo e con gioia ne scordai il suono. Forse semplicemente l'avevo amata troppo e ora non la sentivo più, come il paio di guanti che restano nella confezione, finché passano di moda.
Allora tacere non solo divenne silenzio, ma musica, suono del suono e vita, e voce e ritmo. 
Erano passati tre anni e stavo lì ad oziare su un tappeto di foglie bagnate d'oro, in un parchetto autunnale, ero solo là in mezzo.
Chiusi il libro di poesie, che un amico da Roma mi aveva spedito, sentì dire "bello",  ma ero solo, chi aveva parlato?
Non certo io, eppure qualcuno aveva commentato "bello". Ne ero sicuro.
Misi il libro nella tasca e mi alzai col cappotto bagnato dalla nebbia, feci tre giri di panchina e mi chinai tre volte, sotto la panca. Non c'era nessuno. 
Alzandomi dal terzo controllo sotto le foglie, forte mi arrivò l'odore della nebbia, quell'impasto di umido e fumo appiccicato al naso, dei contadini che fanno fuochi sulle colline, che già alle quattro, nei pomeriggi di novembre, satura l'aria rendendola spessa.
Respirai così, senza fretta e colpito da una semplice, ottusa consapevolezza:
Che era tutto Bello.

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