venerdì 22 giugno 2012

Cassetto n°44


Fumo le Camel, le stesse di mio padre, ma l'amore, non l'ho mica mai capito cosa sia, a volte mi ci fisso a pensarlo, e vorrei catturarne un brandello, osservare un grammo d'amore grezzo, sottovetro. Ma cosa sarebbe? Surreale, tossico, un Caravaggio? Forse nuotare in un mare caldo e scuro.
E insomma, sono qui, a letto, che penso a questo e sono sveglio, ore 6:04, poi una scossa, schiena ritta e tutto comincia a tremare, un boato, lo stomaco, affamato, è nella terra. Conto le mie cose, le saluto, ma oggi non mi alzerei dal letto, crollasse tutto.
Amare Francesca era cicatrizzare una ferita ogni giorno, con cose buone, pazienza, per poi spargerla di sale, la notte e stare sempre, comunque nello stesso modo.
Si muovono gli oggetti, chiaccherano tra loro e non cadono, la casa geme e ancora trema, infissi doloranti come denti cariati. Ruoto la testa sul cuscino, il comodino, spostato di un metro.
Ora son fermo.
Francesca mi ha ucciso, il terremoto, invece, no. Sicario inesperto. Ogni volta che mi sveglio, che mi son svegliato, era terremoto e alluvioni, la sera.
Mio padre era un puttaniere, se le scopava tutte, ogni mattina tornava in bicicletta, fischiettando e lasciava un fiore alla mamma, sul comodino. Poi andava al lavoro, otto ore filate, in fabbrica.
Ho sempre pensato fosse l'amore, a riportarlo indietro, ogni mattina, notti di cui non si poteva parlare, a tavola.
Mangia la zuppa è calda!
Ma mamma era oltre, sopra le nuvole, dentro al lago, ghiacciata nel suo cristallo d'amore e babbo era solo dopobarba, camicia stirata e tanta bici, centinaia di fiori, su quel comodino.
Sono cresciuto, con quei fiori, nel bidone, mamma mi stava sempre accanto, cuciva e stirava, per un'amica ricca e colta, distante da noi. Mamma mi teneva vicino, ma io lo sentivo il battito, dietro la porta, il cuore, il suo cuore era nell'altra stanza, sul comodino.

Quel mattino di maggio, erano le sei, arrivarono tanti vicini, un vociare mesto e costante, poi più forte:
-hanno investito tuo padre, Marco! È morto!- vomitò la mamma.
In pochi scatti ero all'argine del fiume, la bicicletta, fil di ferro, come quello dei tappi di spumante, sottile, piegato, un lenzuolo bianco e nessun fiore, non vidi nemmeno la punta dei piedi, forse non era neppure là sotto.
-portate via quel bambino, quel bambino, dio cristo!-
Di tante cose non ho più capito nulla, da quel giorno, mamma s'infilò nella cruna del suo ago, per non tornare. Io rimasi fermo, dieci anni, a chiedermi cosa c'era dietro alla porta, sotto il lenzuolo.
Francesca provò a spiegarmelo, ma non l'ascoltai.
Frugando senza senso, tra i libri trovai, tre mesi dopo l'incidente, una lettera, il linguaggio era cortese, come gli innamorati:

Mio caro marito, mi auguro di riuscire a concludere questa lettera, ma voglio parlarti del fiore:
So che ami questa casa, so che mi pensi, lavorando alla pressa, otto ore, per me e tuo figlio, ma il fiore, il fiore non riesco più a sopportarlo. Ti sono grata di essere sempre tornato, ti sono grata per i silenzi, ma ti prego, smettila, smettila di portarmi quel dannato fiore! E scrivimi qui, sul tavolo cosa vuoi per cena.
Mariella
La lettera portava la data del giorno prima dell'incidente, e io capii. Capii che mamma non era gelosa delle altre, ma stava cominciando ad esserlo del fiore, capii anche perchè il babbo fosse morto proprio quel giorno:

-Ecco babbo, cazzo, non avevi preso il fiore!-
Per questo non tratto d'amore, preferisco ancora biciclette e fiori.

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