mercoledì 28 agosto 2013

Cassetto n°100

Avendo entrambi il diabete è ovvio che il giorno del gelato debba avere qualcosa di rituale, un piccolo crimine contro il corpo, ci sarebbe concesso un cono piccolo a testa al mese, ma noi optiamo per un medio, ogni settimana. 
Percorriamo il vialetto del gelataio, il bar è a pochi metri dalla comunità, tra un ristorante di pesce e una pensione di lusso con piscina "il Pineto" che fuori son parcheggiate solo SUV e berline scure. 
Centro metri, tra ristorante e  albergo e si trova questo bar che non credo abbia neppure nome, arredato con il cattivo gusto che solo gli anni ottanta han saputo lasciarci: uno spreco di specchiere e di foto promozionali da ufficio comunale del turismo. Il pavimento in linoleum, da solo, giustificherebbe una decisa retromarcia, ma ci inchioda lo sguardo di Benito, il barista.
Benito ogni tanto ci parla, è uno di quelli venuti a lavorare al mare dalla collina, non ama questo posto e i turisti, non è un mistero ma deve sfruttare questi mesi per l'affitto del locale e per poter riposare un po' l'inverno su, a Bagno di Romagna.
A noi porta un rispetto nettamente superiore rispetto ai bagnanti tedeschi e francesi, solo perché sa dove viviamo, sa che non parliamo troppo, siamo qua un pò come lui, per lavorare.
Sta su una gamba, sospeso su una sedia mentre stacca e riattacca la presa scart con in modo meccanico, impreca contro il televisore e ogni volta che la infila una bestemmia, una ogni cinque secondi. Alto e grosso, entra a stento nella camicia bianca e nel grembiulino candido da pasticcere, la faccia stirata dalle rughe compressa in una corona di capelli ispidi e barba sale e pepe, un volto che vedresti a spaccar tronchi o a costruire una diga, non certo a miscelare le creme del fiordilatte. 
Appena ci vede scende dal trespolo, perde una ciabatta, per poco non cade, la cerca di rinfilare ma la ciabatta scivola sempre più avanti e lui si prodiga in un ridicolo balletto a una gamba a saltelli sempre in avanti. Finalmente rinfodera il piede, lo solleva dal suolo scrollandolo per farlo entrare fino in fondo, borbotta che la partita la vedrà a casa, chiuderà questo dannato posto alle sette e via. 
A me questo posto dà già un'idea di artefatto, di varechina e se non fosse buono almeno il gelato non mi dispiacerebbe fare altri venti minuti a piedi, per arrivare a Cervia.
Bruna gli ordina due coni medi, da due euro e cinquanta l'uno, Benito sospira: 
- Soliti gusti?
Confermiamo con un cenno del volto:
- Soliti!
Da tre anni rimpicciolisce ogni volta le palline in uno strenuo tentativo di risparmio, dev'essere il montanaro che ha dentro. Fa il cono, lo osserva distanziandosi, lo sistema, lo liscia con la paletta, toglie un po' di gelato qua e là lo rimette nelle vaschette poi ci porge due sgorbi che, come li afferro, diventa il momento più triste della giornata. 
Guardo Bruna e non mi importa più di nulla, pago io e usciamo a sederci per vedere al gente a spasso. Cinque euro, due coni, non c'è da rovinarsi a Pinarella. Mi perdo dietro a una signora coi capelli rossi, come mia moglie, lei che ho ucciso con tra spari alla testa con la pistola d'ordinanza.
Stanotte l'ho sognata, mia moglie. Eravamo sul terrazzino della nostra casa in Calabria, era caldo, ma si stava bene, lei stava preparando le conserve sul tavolone in legno costruito con un tronco che avevo recuperato in spiaggia. Costruire quel mobile era stato il punto più alto e sereno della nostra storia, provavo una sensazione di pace, di continuità, stavo asciugandomi su un'amaca, le cosce tornite dal nuoto, il freddo sulla pelle, mi sentivo bene, bello. Intorno le cose, il mare lontano come una scimitarra appoggiata sulla schiena dell'orizzonte, mandava bagliori immensi veloce taglienti. Argento e oro. Lei passava la polpa ruotando una manovella, sentivo lo sciacquo del succo di pomodoro nel tino in stagno e lei sorrideva, abbronzata e nera come l'Africa, sempre senza parlare. Poi mi lavavo la faccia, nel lavandino sul terrazzo con un tubo di plastica verde e guardavo quella luce gialla assordato dallo strinire delle cicale e dai profumi di mirto e rosmarino del nostro piccolo giardino pensile. Vibo Valentia, la mia terra, non l'avrei più vista. Profumo di basilico da stropicciare tra le dita e passarle sul collo prima di fare l'amore.
Mi sveglio nel letto zuppo di sudore, la branda militare cigola, le cicale fuori, son le stesse entrate nel sogno, solo il suono è più basso, ho un dolore fortissimo al petto e alla schiena che penso quasi di morire, almeno una volta al giorno penso di star per morire, ma oggi è peggio, è come aver preso dei colpi di mannaia dentro, sono in una condizione non umana, a galla in un barattolo opaco, un sottaceto.
Provo a respirare piano e profondo, questo è il panico, mi prendo lo sforzo e il tempo di respirare col naso e il mio corpo si riallinea, poi bussano.
Bruna sorridente in tuta e telo da ginnastica sulla spalla:
- Andiamo al gruppo ginnastica si si 
- Vai tu io sono stanco
- Dai Giuseppe, alzati
- Brunina, io sto bene qui! Vai te al parco e mi dici com'è andata..
Poi lei esce e io mi giro tre volte nel letto, mi si pianta un portacenere tra le scapole, perdo l'equilibrio, rischio di stamparmi al suolo, mi alzo.
- Bruna aspettami, vengo!
Ed eccomi a seguirla, rincorrerla per il corridoio del primo piano, l'omicida plurimo della sua famiglia che insegue la sua fidanzata infanticida, e che la vuole abbracciare, come un bambino, a metà del corridoio.
La ginnastica al parco la organizza la Denise, una ragazza colombiana, non parla quasi italiano se non "si", "bene" e "stronzo"… o forse l'hanno beccata sbronza alla giuda e ora deve fare lavori socialmente utili, oppure solo le piacciono i tipi strani. 
A noi lei piace, siamo un discreto gruppo di zombie e paralitici, ci fa bene sgranchirci un po' insieme, una cosa molto libera, qualcuno inizia a ruotare le braccia,  altri muovono le spalle su e giù
Il parco è un cerchio, percorso da sentieri da jogging che convergono ad x nel punto centrale, tutt'intorno un perimetro in asfalto per bici e pattinatori e al centro un profondo avvallamento, per questo lo chiamano il "parco della conca" Siamo nella fascia superiore, dietro a noi le panchine e il parcheggio con qualche gioco per bambini..
La Denise ci fa sempre mettere in piedi sotto un grosso pino, proprio vicino alla fontanella, è un posizione comoda, anche se i materassini ce ci portiamo restano perlopiù arrotolati 
Due ragazzi a torso nudo guardano Bruna, si sentono forti, con le loro birre tra i piedi, stanno a cavalcioni su una panchina e hanno l'intenzione di farsi due risate su di noi, li guardo male quelli mi ignorano.
Uno la indica al suo amico, le loro teste si avvicinano parte un sibilo che diventa una frase, a voce alta:
- Và là, che pachiderma!
Lei lo sente, lo sentono tutti, lei si gira e sorride, poi mi guarda…
Ho i pugni tesi, la mandibola serrata in una maschera.
- Sei felice lo stesso Bruna, vero? Fammi sapere come va, dimmi che sei felice, che non ti importa, non ti ha offesa, io li ucciderei, ma non devo, se non vuoi...
Sorride e chiude leggermente l'occhio sinistro più del destro e si rimette a saltellare, è più leggera, è sopra questa banalità, Bruna sorride e come un bambina, ci porta fuori da questo squallore.

Se non fossero tanto stupidi l'avrebbero capito anche loro, che è la cosa più bella in questo parco.

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