lunedì 30 settembre 2013

Cassetto n°104

Incontro, in seduta nel mio studio, una ragazza di un'altra città, innamorata pazzamente di un suo amico malato di cancro.
Si appoggia lieve alla sedia, stretta alla borsetta, poi la lascia cadere, come un'ancora, ed è lì che respira, poi cade, anche lei.
Ha due occhi che tagliano il ferro: verde erba con un cerchietto dorato intorno alle pupille, come un anello, mi parla di come lasciarlo, o meglio di come lasciare qualcuno che, in realtà, non ha mai saputo nulla di lei:
-  C'è quella cosa all'inizio che è un bel po' malata, che non è solo una voglia di viversi, è una voglia di mangiarsi, di assorbirsi, un bisogno di essere insieme oltre il sesso, oltre i bisogni. Una fame di presenza, commovente e disperata, come la dipendenza dei bambini. 
Io penso a lui tanto intensamente da crearne una proiezione nella stanza in cui sono, un modello fisico, olfattivo, come lo spostamento d'aria, un pensiero parallelo, e cerco di ricaricare il mio bisogno attaccandomi a quell'immagine. 
Non sono una persona con bisogni smodati d'affetto, solo vivo stati alterati dovuti al mio essere in preda ad emozioni, essermi attaccata troppo, andata oltre quello che si dovrebbe provare, oltre misura. 
Poi mi spaventa tantissimo per l'idea di non saper disgiungere un'idea dal reale: cosa amo tanto intensamente in lui? Posso conoscerlo se non riflettendolo nella mia idea? Amo davvero? La mia idea? Ora lui morirà, sei mesi, al massimo, cosa sono stata? 
Ho bisogno di dirglielo, ma non servirà. 
A nessuno. 
Nel chiedermelo mi prende un'inquietudine, quella del senso delle cose, come sapere di star guardando dove non si deve, smascherata. Ho paura di scoprire, di espormi, perché basta troppo poco a non amare più a tal punto, a scendere da questa cima. Anche solo l'attimo dopo, quando inizia a calare, sarebbe insopportabile doverlo passare ancora.
Mi butto a capofitto nel banale, nelle giornate uguali, a cercare di renderle diverse, in un atteggiamento psichiatrico di rabbia infantile e sospetto. Lo odio, perché sta morendo, non rispetto il suo essere malato, mi aggrappo ad ogni segno di vita in ciò che fa, che dice, è invischiarsi nel passato lo so, come nel cercare l'indizio che confermi che non è ancora la volta giusta, che ci si deve tutelare. Che si aveva visto giusto.

Le indico dell'acqua, lei non perde neppure tempo a dire di no e continua a parlare, allora mi accorgo che il suo è già un racconto corale, sarò stanco, ma ho perso la distanza e parlo nelle sue labbra, parlo di lato per una lacrima di rabbia, scappata da non si sa dove.
La ricerca della conferma è parte delle storie, è parte del mestiere di diventare sé stessi, proprio per questo le storie servono tutte.
Servono a noi, per primi, questi armadi da aprire, la curiosità di poterci  trovare qualcosa dentro: un bambino deforme, delle carte che non dovremmo leggere, il bisogno assoluto di poter non credere più a nessuno al mondo. Non a quel bambino senza braccia e mani, a cui però teniamo ancora troppo, un nostro figlio aberrante, gli vogliamo bene, non riusciamo a lasciarlo solo, mentre andrebbe fatto crepare di fame nell'armadio.

- Poi ti avevo preso un asciugamano, con un disegno scemo, che ti sarebbe anche piaciuto, ora mi ci soffoco nell'asciugamano, ora lo mangio perché da sola non volerò, ora sono un feto, ci siamo allontanati prima di potertelo dare, anzi io non lo userò. Rimarrà incartato, in armadio, sotto tutti gli altri.

Bene, ora io basta vivere così, è un giornale che voglio lasciare chiuso, voglio andare avanti, andarmene, bruciare l'armadio, la casa, il palazzo, la via. Fuoco.
Buonasera signorina, a martedì prossimo. è stato bello, è stato  importante.

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