domenica 10 agosto 2014

Cassetto n°137

Le zebre sono ottime compagne di sbronze, ma non puoi andartici a nascondere insieme

Fisso le immagini di Gaza alla televisione, sembra il film di qualche regista impegnato spagnolo, quelle luci, non devono riprendere tanto bene le luci, o tutto rischia di apparire irreale.
Gli amici mi lasciano un messaggio in segreteria, si, la tengo ancora, ovvio che sia inutile, col cellulare, ma che c'è di male, ad avere la segreteria? Ho imparato a stare solo, in casa mia, quest'inverno, lascio il pacchettino sul tavolo dell'ingresso, ho quaranta minuti, sta arrivando il catering: è il compleanno di Caterina.
Penso a questo regalo da quando l'acquistato, Eleonora, la vecchia gioielliera, aveva qualcosa di ossessivo, nell'insistere perché prendessi proprio questo. Lei conosce Caterina da una vita, io ero stanco, mi sono fidato.
Nello schermo, un bambino in braccio, gli esce l'osso della gamba, è color piombo, sembra un giocattolo, ma ho fame, mi faccio disgusto da solo e spengo lo schermo.
Potevo spendere anche meno, tanto è tutta aspettativa, bastava un peluche, magari questi orecchini non fanno neanche figura, mi costano uno stipendio e magari non le piacciono, magari era meglio andare alle terme. 
Non è periodo: casini al lavoro, per entrambi, ma sorrido, sta arrivando un'ottima cena giapponese, qui, tra poco, ho persino ordinato tovagliette a tema e vino bianco.
Stiamo affrontando un periodo nero, sempre in ufficio, ai capi opposti di Milano.
Perché quei cazzo di orecchini? Non li metterà mai, poi.

Il gatto balza dentro, sembra quasi scontento di vedermi, sperava fosse lei, personalmente cerco di farlo aspettare sempre molto, per mangiare, mi diverto a portarlo al limite. L'odio nei suoi occhi gialli è denso come budino. Mentre l'acqua comincia a riempire la vasca mi scaldo qualcosa: due pezzi di pollo di ieri e un fondo di Peroni rimasta fuori frigo
La segreteria gracchia: amici mi dicono che mi sto perdendo ogni concerto, quest'estate, ed è così, è vero, mi sto perdendo davvero tutto.
Qualcosa gratta nel pacchettino, dentro, ma non posso essere già sbronzo e le allucinazioni, qui, non c'entrano con la birra, il gatto scappa dalla finestra, un razzo, pazzo come me.
Non resisto, cosa si muove nel pacchetto? Scollo leggermente l'adesivo della gioielleria, la carta patinata color avorio si apre da sola, come un fiore, esce il cofanetto in cuoio rosso. Lo tengo in mano, la carta tocca terra, cristo trema, vibra sul serio.
Faccio scattare il pulsantino, CLAC.
I due piccoli diamanti non ci sono, al loro posto ci sono minuscoli occhi, vivi, che si muovono, occhiolini verdi, grandi come capocchie di spillo, verde smeraldo e lucidi, iniettati di sangue. Come guidati da meccanismi invisibili, ruotano, si guardano intorno, per abituarsi alla luce, sento un fischio sottile, in sottofondo, nelle orecchie. Una stranezza disturbante, bellissima.
La mia sicurezza va a puttane, mentre li sfioro, da dove cazzo verrà sta roba, questo delirio? Eleonora, forse, già lo sapeva.
Vado all'armadietto basso bianco, allontanandomi da quegli occhietti il fischio cala, fino a sentirsi appena, come una moka sul fuoco, lontana, come se avessi una casa da trecento metri quadri. Mi verso qualcosa da bere, del Talisker credo, anche se sono appena le sette.
Tra poco, Caterina torna.
Ritorno a quell'assurdo pacchetto, la pupilla verde degli occhietti, sottile come una linea, si assottiglia ancora di più.
- Vuoi vedere? Il fischio mi pare dica questo… vuoi vedere?
- Si, io voglio, voglio vedere tutto
Prendo i due orecchini e li ficco dentro i pollici, uno per dito, esattamente al centro del polpastrello, al centro perfetto, come mettersi della droga dentro, un brivido e una strana sensazione di menta, allappa la lingua.
Era come se sapessi, se sapessi tutto. Ora chiudo pollice e indice a cerchio, come il mudra, come se sapessi tutto.
- Giulio, sono qui, chiudi i tuoi cazzo di occhi!
Li chiudo e vedo una vetrata di grattacielo, Caterina di spalle, una grande città sotto di lei: è Milano, dall'alto. Caterina ride, ed è appoggiata alla scrivania, passa un uomo alto, è Vincenzo, il suo superiore, si sorridono, qualche secondo, troppo a lungo, gli occhi cominciano a bruciarmi i pollici, li staccherei, ma devo andare avanti, li stringo tra le dita.
Ingoio ancora un po' di whiskey, rimasto sotto la lingua, vorrei la bottiglia qui, continua la visione:
Sono in corridoio, lui parla, lei ride, ride sempre, quella troia, col suo capo.
Sono alle macchinette, lui le sfiora piano la mandibola con l'indice, piegato, molto dolce, molto esperto, lei china il capo all'indietro, si baciano. 
Non ci riesco più e devo togliere gli orecchini dalla carne viva, dei pollici. L'oro bianco scotta come un tizzone di brace, perché sto piangendo, se sapevo già tutto? Oggi mi sono solo visto annegare.      
Riguardo quei piccoli occhi, li rigiro, ora sono neri, paiono morti o bruciati, sono inutili, arsi dal loro potere.
Ora so, che ho costruito una storia di ragnatele, ora, davvero, rimetto a posto i due gingilli. Son tornati piccoli diamanti, rieccoli: perfetti, luminosissimi, e io che pensavo di aver preso qualcosa di poco conto. Son bellissimi, altroché.
Suonano alla porta, apro nudo, i due ragazzotti asiatici, bassi corpulenti, non si scompongono nemmeno. Sistemano i pacchi sui tavolini che ho piazzato in sala, sono sudati, ma efficienti, molti spicci tintinnano nelle loro tasche, spacchettano, aprono, sfiocchettano, se ne vanno lasciandomi un buffet pronto, due bottiglie in ghiaccio e dei deliziosi animaletti in bamboo, da guarnizione.

- Basta che se li metta, che se li metta stasera, la stronza.
- Ah, si, se li metterà.
Ho ormai nettamente bruciato il pollo.
Mi metto seduto al buio della sala, da solo, come penso nessuno sia mai stato, solo, in un'intera vita. Prendo il pacchetto di sigarette d'emergenza e lo finisco, schiaccio le cicche direttamente sul tappeto. Poi mi rado con cura, after shave freddo sul viso e mi vesto molto bene, tutto in bianco e mi risiedo.
Il sole taglia obliquo le persiane, dalla mia faccia cala lentamente sul petto, le otto e quaranta. 
Linee che si abbassano su di me, io mi inchino dentro loro. Alle linee.
Il portone scatta, rumore di tacchi, con quasi tre quarti d'ora di ritardo, ecco Caterina.
- Oh, ma al cellulare non rispondere
- Scusa ero qui, che pensavo. Ritardo?
- Eh, chiudere la pratica Bonfiglioli, anche il giorno del mio compleanno
- Mi pare che ultimamente non ti dispiaccia, fare tardi in ufficio
- Giulio, non cominciare come al solito
Le verso il primo bicchiere di vino, nota le sigarette sul tappeto e fa finta di niente, tutto chiaro
- Ora vorrei indossassi questi, eh amore...
Caterina prende il pacchettino, quanto è strana, lo apre e ha una bella espressione. Magari le piacciono davvero, magari non sa degli occhi, come può sapere della loro promessa. Non può sapere delle linee e degli occhi, che sono là dentro.
- Che carino, sei andato da Eleonora?
Li infila con calma, che bel collo che ha, Caterina. Poi dritta chiede
- Bella?
Non dico nulla e con una lentezza, una solennità che quasi non mi riconosco, inizio a voltarmi verso di lei.
I suoi lobi, due piccoli occhi verdi sui suoi lobi, ora ancora più luminosi: gli occhi del Dio del controllo, mi fissano, sicuri e spietati come quelli di un rettile, nessuna pupilla, solo due linee.
Senza volerlo, faccio un cenno col capo.
Con la mia rinnovata pace, prendo un calice di vino, è fresco e subito dopo, il tonfo.

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