lunedì 16 gennaio 2012

Cassetto n°12


Sentivo di avere pochi minuti, forse secondi, mentre l'umidità mi avvolgeva e se è vero che ogni battaglia si risolve in attimi, sarei stato sciocco a non tenerne conto.
Lo scudo, troppo pesante, cadde di taglio nel terriccio, lasciando un profondo solco verticale, dal quale, ora giurerei, parve uscire del sangue caldo e denso. Il ginocchio sinistro cedette, affondando, poi, proprio in quel taglio. Mi acquattai tra le colonne in rovina a prendere fiato, i muscoli tesi delle cosce fletterono e avvertii una scossa piacevole alla spina dorsale. Forse mi stavo liberando del peso maggiore: l'umana speranza, perché questo era il prezzo dello sfidare gli dei, scontavo la condanna di essere in parte figlio loro e in parte figlio di un pescatore. Constatai che le mie risorse erano al minimo, soprattutto dopo l'ultima marcia fino all'Ade, dove avevo perso i migliori compagni.
L'antro rifletteva la pietrificata disperazione dei vivi e di quelli che lo furono, mentre le sensazioni diventavano materiali, come lo era la delusione di una donna, abbandonata da Poseidone, uccisa e tramutata in Gorgone. Il dolore di Medusa fluttuava in lamenti, impercettibili, che scorticavano l'udito, non percepivo speranza in quell'aria e, per la prima volta, ripensai alla profezia delle streghe: non sarei tornato al mondo dei vivi, non avevo monete per il traghettatore nella mia borsa.
La consapevolezza del luogo mi suggerì di usare meno gli occhi, finora tutto il mio mondo, ora dovevo sentire l'aria, i suoi spostamenti, i fruscii, perchè lei era ovunque.
Mi rimisi in piedi con uno scatto, la mano strinse la spada, era il peso del tradimento, forgiato da mio padre nell'Olimpo, ero pronto all'attacco, che sarebbe stato una lancia, un'azzannata. Usai lo scudo come specchio per scovare la bestia appostata tra le colonne e le rocce umide del tempio, al suo interno la parete rifletteva. Fasci di luce filtravano fiochi sopra la mia testa, appena sufficienti a scorgere i profili delle statue. Per pochi secondi godetti della sensazione di equilibrio della caccia: trovavo conforto nell'idea di due avversari, impegnati a  non soccombere, animati dall'unico scopo di fermare il cuore dell'altro. In questa arte non esisteva il compromesso, la pietà, l'inganno, c'era solo l'attimo.
Ad un tratto notai il brivido di un bagliore nello scudo, lei si stava lanciando dal soffitto in una parabola ad arco, velocissima, saettava a pochi metri alle mie spalle. Riuscii a scansarmi di un centimetro e frustò accanto a me la sua lunga coda di serpente che mi lacerò la carne all'interno del braccio sinistro. Sangue caldo scendeva sul gomito, mentre realizzai che non c'era umanità nel suo movimento, come se aria, materia e sostanza le fossero estranei. Non avvertii dolore, avevo troppa adrenalina in corpo e, per un istante, la vidi di spalle, davanti a me. Un'elaborata corazza a squame color madreperla, parte integrante del corpo, si irradiava dal centro della schiena fin attorno le spalle. Giuro che non la notai voltarsi, ma era già di fronte, innaturale. Feci la mia mossa, mi abbassai e con il possente scudo la caricai con tutta la forza delle gambe, colpendola forte al busto, per farla retrocedere, ma non si mosse di un palmo. Era solida, parte integrante della caverna che la ospitava, e capii che la dannazione le aveva donato risorse illimitate. Provai ammirazione per il suo essere la più dotata, seppur l'unica mortale, tra le sorelle Gorgoni. Nello scontro diretto non c'era speranza, ammisi, per cui retrocedendo ripiegai tra  le colonne, correvo veloce, ferendomi i talloni tra gli speroni in selce, mentre la sua furia esplodeva e si gettava alla mia rincorsa, non udii alcun suono, né grido; il silenzio era la sua arma più inquietante, ed era inoltre oggettivamente troppo veloce. Scattai sotto un masso e mi ci accovacciai a riccio. Lei si innalzò, meccanica, sopra di me, nell'alto della caverna, per poi schiantarsi sul mio corpo di ossa e tendini, io badavo bene a tenere sempre lo scudo tra noi, e la lama, pronta a scattare subito dietro, come l'aculeo dello scorpione. Si buttò sullo scudo, l'urto fu portentoso, una mandria di cavalli selvatici, ma l'ira l'aveva resa per un attimo avventata. Riuscii a contenerne la forza e a farla scivolare di lato sfruttando il tempo morto, bloccai il suo corpo nell'asperità tra due rocce aguzze puntellandomi con lo scudo e appoggiando la schiena a un masso, e infersi un unico colpo lungo. Mirai alla gola, tenera, umana, e la lama entrò sicura, per metà della sua lunghezza, sopra la corazza del petto, mentre due fiotti neri di sangue sgorgavano dalla testa, uno velenoso, l'altro con il potere di ridonare la vita. Ci fu un rumore secco di stacco e vidi la testa cadere all'indietro. Le serpi non si placarono, contorcendosi cercavano di azzannarmi più di prima. La testa non morì e la chiusi in una sacca di cuoio, senza poterne vedere gli occhi, che, dentro di me, sentivo bellissimi.
Mi accorsi solo ora di aver ucciso qualcosa di veramente umano, e mi piombò addosso una stanchezza infinita e sentii di aver perso me stesso. A nulla era valsa la fredda giustizia degli dei e della nobile Atena, che, quella notte, guidò la mia mano.

2 commenti:

  1. Alla fine si tira un respiro di sollievo.
    Era quello che volevi da chi ti legge?

    Se la risposta è si, sei riuscito nell'intento.

    Se è no, allora devi restare contento ugualmente perchè significa che ha suscitato comunque qualcosa di vivo.

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  2. Il racconto è un semplice crescendo verso la consapevolezza che non esistono mostri, esistono ragioni mostruose, son contento che ti piaccia. Sai quanto significhi per me

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