domenica 24 febbraio 2013

Cassetto n°79


Facevo le notti là dentro da tre anni e ricordo ancora bene di quell'uomo, quello che ci costò il licenziamento. Morissi se volava una mosca nella clinica, dopo le dieci di sera Era un mortorio e persino l'odore: un olezzo al confine tra organico e chimico, quella sera, pareva sparito. Erano proprio tre bei personaggi: Long John, Dear John e John John, vigilanti che rubavano le sigarette dai cassetti dei degenti e spettegolavano per tutta la notte. Erano tre perché i pazienti, quell'autunno, erano saliti a trentasette, ultimo arrivato, quella sera, un giovane delirante, un ragazzo gracile di vent'anni, non aveva entrambi gli occhi, era bendato.
- lasciatelo stare qui com'è, ve lo tenete due giorni, poi lo riportiamo via noi! -
- Perdio! cos'ha agli occhi, è sangue? -
- sanguinavano già, l'hanno medicato, non guarisce, non scopriteli per nessun motivo! -
Lo fecero sedere nella panca dell'atrio mentre si compilavano i documenti di ingresso.
- ragazzo parla! Hai fame? -
- no signore, ma può chiedere agli agenti il mio libro? -
- che libro? -
- aveva con sé un quaderno, scarabocchi, disegnini incomprensibili, niente di utile al riconoscimento, glielo daremo più avanti -
- ma chi sei, da dove vieni? -
- Io sono la scia, la mancanza, sono quello che han tolto - 
Del resto, per noi, lavorare al Saint Claire House Hospital era una discreta pacchia, una pacchia ben retribuita oltretutto, solo dieci notti al mese e qualche pomeriggio, lungo. Certo,  poteva capitarti la bega di uno di questi barboni, che raccattava la polizia, in giro, troppo pazzi per il carcere, troppo instabili per la strada, raramente però avrebbero fatto male a una mosca. Negli anni sessanta non c'erano studi da fare, erano stati tutti assunti solo per la stazza: Long John era un ex pugile, Dear John sperava di sfondare nel cinema, mentre John John aveva perso tutti i terreni del padre al tavolo verde. Loro avevano quarant'anni e io quasi sessanta, per passare dalla porta dovevano mettersi di lato tanto eran larghi, questi afroamericani. La sera, se non lavoravamo, si andava a bere una tequila nel baretto del porto, il Portobello's. Un grande pappagallo ubriaco di neon fosforescenti era l'insegna del Portobello's, l'unico indizio del passato glorioso del locale. 
- ragazzo, sai perché sei qui? - 
- perché sono la paura, dicono che ho manipolato famiglie, che ho distrutto il mio villaggio -
- e non è così? - 
Aveva una luce, una qualità mentale, che si irradiava da quelle orbite buche dove mancavano i bulbi, il sangue non si arrestava mai, era un flusso continuo, lo stava uccidendo.
Il ragazzo senza occhi aveva spaventato tutti, si piegava negli angoli più bui della clinica, assorto come in conteggi silenziosi, imponeva distanza, ma era anche un magnete, c'era un bisogno quasi fisico, sia tra il personale che tra gli altri ricoverati, di sapere cosa facesse in qualsiasi momento, chi fosse, perché portasse quello sterminio sul corpo.
- vi piace fare le domande su di me? Perdete tempo! sono quello che non è già più qui, vi porto informazioni da leggere nell'acqua, in queste croste di muri - 
- te li sei strappati tu? -
- Sono nato qui, nelle tue domande, chi mi ha mandato mi ha tolto gli occhi, che erano la forma della mia comunicazione, ora dovete sentirmi, perché vengo da molto lontano - 
- per dirci cosa?
- che il cielo vuole cadere! presto il vuoto si abbatterà sull'uomo che qui vive come un rifugiato -
Long John non lo sopportava più, quel clima, parlava a bassa voce del figlio del diavolo, si presentava al lavoro con rosari al collo, prendeva ferie, permessi, la moglie era tornata a star peggio. Altri, come me e Dear John, ne erano impietositi, ci mettevamo a spiarlo, dietro le colonne dell'atrio, speravamo che ci invitasse a parlare. Per il resto il lavoro procedeva pacifico, l'allarme era nuovamente guasto e i medici cercavano di fare il meno possibile, d'altronde per certi alienati, qui dentro, non c'era più molta speranza, avrebbero preso farmaci a vita, la cura.
Polsi fragili, trasparenti, quasi sommerso dal pigiama con il logo ricamato della clinica, il giovane si reggeva sotto quel pigiama, che gli stava tre volte, come un'ombra, una scia.
Era una serata tranquilla e nelle stanze dalle grandi finestre tutti dormivano, solo il ronzio dei termosifoni, Dear John ci allietava ruotando il mazzo di chiavi e intonando  canti delle piantagioni di cotone, voce nera che più nera non si poteva, fuori silenzio, nevicava.
John John aveva avuto un'ottima idea: un gancio, creato piegando una graffetta, sulla cui estremità aveva fissato una punta, una matita, in questo modo, se la leva che segnalava l'apertura delle porte esterne si fosse abbassata, l'oggetto avrebbe fatto cadere a terra un tubicino in metallo posto sul bordo del tavolo.
Potevamo quindi giocare a poker qualche ora, dato che in ufficio non c'era spazio, ci mettemmo su un tavolo, in sala mensa, accanto all'archivio con la porta aperta e le torce in fila sul tavolo, pronti.
Alle due e mezza, finimmo di giocare, nessuno aveva chiamato dalle stanze e il fermaglio-spia di John John era perfettamente posizionato, allora persi la terza mano e quindici dollari dal prossimo stipendio, i tre vigilanti giocavano bene, rischiavano tutto, ma a perdere ero soprattutto io. 
- ma voi non avete un cazzo da fare qui? - scherzai
- si, dovremo fare un controllo, poi altra mano? -
- no basta, io passo! -
Si alzarono all'unisono, Dear John  raccolse le carte, ognuno si prese una torcia
All'improvviso: - dov'è? dove cazzo è il cieco? -
- no! ma qui mancano tutti, sono scappati tutti! -
- guardate nel giardino, guardate nel capanno! -
John John era catatonico, era rimasto fisso davanti al suo marchingegno, perfettamente fissato tra l'asta dell'allarme e il tubicino in metallo, non capiva cosa era andato storto.
Dear John e Long John correvano su e giù, incrociandosi in un patetico balletto d'isteria, riempivano i secondi, cercavano di capire.
Mi affacciai a una della camere, il letto era tirato, le lenzuola pulite, a parte la mancanza dell'ospite si sarebbe detta una stanza normale, ordinata, nell'angolo, nella boccia di vetro, un piccolo pesce rosso lambiva la superficie dell'acqua. Supposi che avrei trovato le altre circa venti stanze nelle medesime condizioni. Fu così.
Percorremmo il giardino in lungo e in largo, nonostante tutte le quattro porte risultassero bloccate, con un mezzo metro di neve fuori, intatta, nessuna impronta, trentasette ospiti nel nulla.
Nel mio piccolo cercai gli indizi, le tracce del ragazzo senza occhi, più nel pensiero dentro di me che nel prato, ma tutto portava solo a un'inspiegabile assurdità, una mancanza di senso e logica, mancanza era il nome che il ragazzo aveva usato per descriversi a noi. Il suo non esserci. 
Io non so dove fosse andato, sentivo la scia ma lui non c'era più tra noi, la luce si era spenta.
- sono quello che non avete visto, dove non eravate, quando non sapevate -
Lavorai per altri venticinque anni in manicomi distrettuali, carceri e ospedali, mai più vidi nulla di simile, smisi  dopo di farmi domande, col tempo, come se dolore e follia fossero parti necessarie del mondo, come se dovessi abituarmi ad ignorare il secondo senso nelle cose, senza riuscirci mai, senza rinunciare a riempire la mancanza. La gente aveva sempre avuto paura di lui, solo questo avevo capito, pensandoci, parlandone in giro, quelli che lo avevano incontrato prima dicevano che nei suoi occhi vedevi la verità, quello che non avresti voluto sapere, forse un parente o forse proprio il padre glieli aveva strappati da piccolo, gli occhi, per questo.

 

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