domenica 26 gennaio 2014

Cassetto n°115

Non è la prima volta che Sonnie viene a prendermi al lavoro, ho la notte in fabbrica da solo, sono addetto al controllo delle stampatrici, con la responsabilità di sta roba da migliaia di euro, in teoria, in pratica non faccio niente. Non esiste modo più becero di farsi uno stipendio nel settore. 
Non un minuto di fatica, solo lunghe, interminabili notti a sistemare i rotoli di carta di quelle che diventeranno le scatole dei farmaci. Svigno un'oretta e andiamo a farci un giro. Montiamo sulla Fiesta di Sonnie, trasformata da un selvaggio tuning, odore di pulito e antimacchia Arexons, la forma dei sogni di un bimbo frustrato pagata a rate da carpentiere.
Sonnie ha riavuto la patente da sei mesi e queste fughe sono notti fuori da noi stessi, giriamo e giriamo per il nostro quartiere finché il serbatoio non è vuoto e abbiamo speso quasi tutto. Stanotte ci fermiamo davanti a una casa in costruzione, a metà di via Volga. Prendo la torcia dal bauletto.
- Devi vedere questa cosa e mi fa cenno di scendere, e scavalchiamo una finestra sbarrata da alcune assi, dentro odore di muffa e cemento, e tira un venticello, segno che ci sono altri ingressi, dubito che qualcuno già ci viva già. Ovunque mucchi di mattoni, listelli di parquet, tubi di silicone. 
- Vieni, andiamo nel seminterrato
Ogni volta che sento dire seminterrato mi vengono in mente i telefilm americani, ma è così che io e lui chiamiamo le cantine. 
Un ambiente enorme e buio, pavimento in cemento ancora grezzo, gratta sotto le nostre Nike si intravede una linea obliqua che luccica, una forma lunga e stretta
- Una canoa olimpionica sentenzia Sonnie - Cavolo, è bella, tocco i bordi smussati e laccati dello scafo, il colore giallo lascia il posto al legno nella parte inferiore, liscio. Il numero 03 sul lato, sempre giallo. 
- Ma non è questo che volevo mostrarti, seguimi qua
Ci avviciniamo ad un angolo della stanza, sotto un finestrotto, c'è un fantasma. L'avevo notato subito, poi la canoa mi ha distratto. Una forma alta, sotto un lenzuolo un po' curva e lunga a terra. Fa quasi paura, la tocchiamo piano, dondola un po'
- Indovina!
- No non so, un morto?
- No, come un morto… questo è l'elogio alla vita! E solleva il lenzuolo con uno scatto plateale ed e: la statua enorme di un cazzo in ceramica punta verso il soffitto, alta più di noi, - vedi che roba mettono nelle case ancora da finire!
Sono immobile, la forma liscia e riflettente pare una statua di qualche cripta religiosa spagnola, eppure è un pene, un enorme attributo
- Forse qui ci fanno delle orge
- No, non credo, non c'è nemmeno un materasso, solo la canoa e la statua
- Ma perché mettere queste cose in una casa praticamente a metà?
- Non saprei, un senso ci dev'essere, ma andiamocene via, dai
Risaliamo e fuori è già giorno, a me parevano passati tre minuti, è passata un'eternità. Entriamo nella macchina dopo aver rimesso le assi sulla finestra al loro posto, Sonnie avvia il motore e mi butta un pacchettino giallo sul cruscotto.
- Frangiflutti. Non posso farmi al lavoro
- Ma dai, sta roba l'hai praticamente inventata te
Nella mia vita la linea che separa la realtà dalla finzione è sempre stata molto sottile, non sono poche le cose assurde che ho potuto vedere, varcando le porte scure, anche se c'era da fermarsi. Dove qualcuno si fermava a riposare, io andavo avanti.
Da piccoli avevamo scoperto che mescolare olio di girasole, cocco in polvere e qualche anfetamina sbriciolata creava un bell'impasto simile al dentifricio che, masticato col chewing-gum, dava un effetto lungo di sballo soft, molto controllabile e contenuto. La sostanza aveva preso il nome appunto di frangiflutti.
Il frangiflutti: il compagno ideale nei pomeriggi monotoni della bassa, non ti fa andar troppo fuori e arricchisce la realtà di particolari colorati e interessanti, permettendoti di staccare dalla massa dei tuoi coetanei ebeti seduti nei bar aggrappati alle gazzette.
Ne prendo una pallina e ci immettiamo sulla statale, la arrotolo nelle dita e la getto sulla lingua che sono le 4:50 di mattina. Io comincio a pensare intensamente.
Mia nonna era morta d'estate, cancro al colon, un cancro lento e vecchio come le onde di questo grande mare, che alla fine, l'aveva abbattuta. Non avevamo avuto nemmeno il tempo di piangerla, si era ripiegata come un vecchio fiore in giardino. Sonnie svolta sul lungomare, comincia ad albeggiare, ben fatto Sonny! Adoro la spiaggia al quest'ora.
- Mettiti la cintura Lu!
Mia nonna è  nel sedile di dietro, in quella vestaglia giallina che aveva sempre l'ultimo anno, la vestaglia che le stava meglio. Non mi pare strano dirle:
- Certo nonna, ora la metto.
- Tu ragazzo dovresti essere a lavorare o sbaglio?
Un po' mi vergogno, e non so rispondere. Ma è naturale fare quel pezzo di strada insieme a lei in silenzio.
Non chiedo più nulla, senza parlare la osservo dal retrovisore, la portiamo davanti alla sua villetta. Lei scende lieve, e fa un cenno come di freddo e di saluto insieme. Non piango perché, alla fine, ci siamo salutati anche bene.
Mi ripete solo una cosa dal finestrino
- Te non dovevi essere qui
La droga e i pensieri si mischiano, non capisco l'avversione di mia nonna nell'avermi visto, forse era l'effetto di un ricordo sbagliato in un momento sbagliato. Ma con grande chiarezza la vedo come l'unica cosa reale in un momento di follia. La disapprovazione familiare che brucia la gola, che mi corrode dalla nascita.
Dentro di me sapevo già tutto: alla fabbrica era successo un casino, e qualcuno aveva distrutto la statua del grande cazzo, ci rimasi molto male, e non riuscì a vedere le cose come casuali, non so per che motivo. Sarei voluto tornarci un giorno in quel maledetto posto, da solo a rivedere almeno la canoa.
Alla fabbrica erano venuti a rubare del materiale, un paio di ragazzini del vicinato. Mi tenevano d'occhio da mesi, i miei giri notturni, avevano mangiato dal frigo e preso il mio MacBook, poi facendo qualche giro si erano avvicinati ai macchinari. Il primo, forse fumato, aveva messo la mano in un rullo ed ora era a terra dissanguato attaccato a quello che poteva essere carne da hamburger o i resti del suo braccio. 
Il suo compagno, tasche gonfie di penne e merendine, si era letteralmente pisciato addosso a soli tre metri da lì. Mentre l'altro perdeva il braccio insomma.
Abbiamo appena lasciato andare mia nonna, nessuna fretta di tornare a stampare cartoni farmaceutici, chiedo a Sonnie di deviare verso al self-service in tabaccheria.
Vedo una luce prendere spazio in forma ovale nei miei pensieri, la ricaccio e cerco ancora conforto in una notte che mi allontani dal ricordo di mia nonna, dalla canoa e dalla statua.
Ma la notte è ormai svanita, credo che stavolta non riuscirò neppure a scendere per andare a sistemare e far finta di aver concluso il turno, credo che tutto finirà qui in quest'auto. Gli altri arrivano alle sette.
Il piazzale della stazione è solcato da ombre lunghe di passanti, si muovono, si evitano, entrano ed escono dai portoni della stazione, ma sono solo ombre, in giro non c'è ancora nessuno. Sono i miei morti interiori, le loro tracce, ho sempre pensato alle tracce in giro, al fatto che se ne lascino troppe, di continuo. 
Una donnetta grassa, una turista asiatica col cappellino, cattura la mia attenzione. Buffo come riesca a stare in giacchetta bianca e pantaloni corti in questo gelo. Poi la mente perde ancora fuoco e sento un rumore di acqua, galoppo di mille cavalli selvaggi.
Sonnie punta l'indice e il medio verso la turista coreana, ferma davanti alla stazione, un tocco e BANG la testa dell'asiatica salta in una nube di sangue e materiale scuro. Soffia sulle due dita e fa l'occhiolino, pure.
- Abbiamo varcato il segno, bello! Ride entusiasta ma ha negli occhi la disperazione. Io mi accuccio nel sedile, il freddo è insopportabile, mi sento come se stessero giocando con me, il frangiflutti non c'entra nulla.
Non so come, né perché, ma mi trovo a sperare che il corpo senza testa cada, e invece è ancora in piedi e sta lì fermo coi suoi pantaloncini e la t-shirt bianca Sergio Tacchini.

Un lieve odore di disinfettante e un suono leggero, che entra strisciando in una sensazione tremendamente aliena e familiare insieme. 
Beatrice osserva la scena, ha fame e vuole togliersi il camice, i monitor ripetono sempre gli stessi dati, da due anni a questa parte: nessuna reazione, anzi per essere precisi nessun segnale di attività cerebrale minima. Appoggia la cartellina e dà uno sguardo al cellulare: le cinque
Beatrice non è più frustrata, ora è stanca, stanca di dover sostenere la tesi che i suoi stimoli intraoculari brevi ripetuti producano un anche minimo accenno di vita mentale in soggetti vegetativi.
Pensa di abbandonare la ricerca che le ha aperto le porte, che le ha fatto avere i primi scarni finanziamenti. Son tre giorni che ha aperto quella mail da Londra, un'offerta di borsa di studio, non tanto ma cifre impensabili per l'Università di Parma. Non ha risposto, non sa che fare. Ha paura di cambiare, innanzitutto, come se lasciare quell'idea, quella ricerca sia lasciare sé stessa. Poi ci sono loro.
Guarda i due letti, quei due ragazzi con i quali ha passato più tempo che con chiunque altro, nell'ultimo anno. Immobili in un sonno senza sogni, ora si sente di dirlo, senza sogni.
Incidente in moto Sonnie e lesione spinale durante un intervento chirurgico per Luca: innocenti.
Ora non vuol pensare se risponderà a quella mail, vuole solo scendere a prendere una boccata d'aria e godersi l'alba.

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