domenica 23 febbraio 2014

Cassetto n°119

Sogno di cadere da una lunga rampa di scale. 
Anche pochi minuti fa, prima di mettermi a scrivere, come tante volte è arrivata, nella prima fase dell'addormentamento, la solita sensazione: cadere.
è un sussulto che mi sveglia e poco dopo è un pensiero, o meglio la netta e velocissima sensazione fisica di stare cadendo. 
Perché? Non ricordo nulla di traumatico nella mia vita, un colpo di sonno che mi portò a distruggere la macchina in un fosso, tre anni fa, senza conseguenze per me, ma mi svegliai proprio mentre le ruote anteriori si staccavano dall'asfalto per cadere nel vuoto. Mentre ero in volo direi che la paura era già scomparsa, pensavo al danno economico, il fosso era profondo, ma non sarebbe stato mortale, era tutto nell'attimo prima. 
Controllo, vista, sorpresa, buio. Non riesco ad individuare altri eventi che potrebbero aver aperto questo buco in me. Eppure il cadere ora è un po' una sensazione costante. Quasi una volta al giorno ho l'immagine, anzi, la sensazione, di stare cadendo: balconi, sentieri sul vuoto, ho molti problemi col vuoto, in questo periodo. Prima non c'erano, non so se indicare l'episodio dell'auto come responsabile, lì forse, me ne sono solo reso conto. Un vuoto che, tra l'altro, non cerco, e davanti al quale non necessariamente provo ogni volta tutto questo. Nel reale, le cose si complicano se parliamo di pensiero.
Proprio l'altra sera, al CISIM, un locale gestito da alcuni amici, abbiamo commentato un documentario. Nella pellicola un uomo chiede a un regista di seguirlo per filmare il suo suicidio. L'uomo è attratto dall'idea di gettarsi da grandi altezze. Ora non credo che riuscirei mai a suicidarmi, ma se dovessi provare, quello sarebbe davvero un tentativo che fallirei.
Non riesco a non pensare al momento del distacco, il salto, il lasciare il supporto fisso per abbandonarsi al vuoto, a me il vuoto non attira. 
Anche il colpo di pistola, non torna indietro una volta premuto il grilletto, anche il cappio, non si allenta se fatto scorrere dal nostro peso corporeo, eppure credo di attribuire alla caduta un grado di incontrollabilità sempre maggiore. Mi spaventa, solo e soltanto, quel lasso di tempo in cui effettivamente si sta cadendo, perché il prima non esiste, e anche il dopo non è importante, e nel mentre, non si può più scegliere.
Spesso immagino di cadere all'indietro dal punto più alto di una alta scala, è una scelta troppo anticipata rispetto all'esito, infatti credo che il volo, alla mente umana, paia davvero interminabile, tante volte mi son trovato a guardare su YouTube la caduta disperata delle persone intrappolate sulla cima delle Twin Towers in fiamme, compassione per l'assurda scelta di buttarsi per "salvarsi". Io sarei certo bruciato là dentro.
Sogno di cadere da una lunga rampa di scale, è una parte del monologo inserito ne L'Esorcista II, un film molto meno riuscito del famoso predecessore, ma comunque pieno di strani spunti, la maggior parte dei dialoghi col demonio, stavolta, avvengono nella cella di un manicomio, al centro di cui, a una certo punto, emerge persino un giovane crocifisso ai remi da canoa.
C'è qualcosa nel vuoto, che prende e risucchia, l'assenza del supporto, non vedere più sotto e l'odiosa, brevissima attesa che accada qualcosa, nella fattispecie lo schianto: mentre si sta cadendo, forse intimamente, si spera di anticiparlo, mentre la gravità chiude il suo patto col nostro peso, nel quale non abbiamo nulla da dire.
Già mentre ne scrivo, le sensazioni scemano, fatico a trattenere il senso di quello che volevo fermare qui, descrivere.
Mi pare qualcosa di più irrazionale, letterario da trattare, eppure poco fa sarei stato certo di poterlo fare.
Non ho istinti suicidi, non cerco la reale sensazione mettendomi alla prova.
Poco tempo fa parlavo con un ragazzo giovane e intelligente, che mi ha descritto molto bene la sensazione di avvicinarsi al bordo delle cose. Nel suo caso parlavamo in senso molto metaforico, la paura di stare nel, vicino al limite, di sfidare quella linea, la paura di non saper mantenere la distanza giusta, la separazione e la sensazione che gli impulsi violenti potessero ritorcerglisi contro, di perdere il controllo e oltrepassarlo.
Devo dire che è un discorso che capisco molto. La mia formazione suggerisce il concetto di ansia, insicurezza, eppure la forza di quel vuoto e la sua totale incapacità di presentarsi in termini spiegabili, di formare un pensiero, mi rende difficile astrarre gli episodi in cornici più ampie.
Ho un profonda ammirazione per chi riesce a gettarsi nel vuoto, sia per sport estremi, sia per farla finita.
Nel documentario dell'altra sera, Richard, il protagonista, si sporge continuamente da torri, ponti, grattacieli e alti massi a picco sul mare. Credo che Richard però avesse paura di morire, che non è propriamente la paura di buttarsi.
Chi riesce a dialogare così profondamente col vuoto, a scalare, per esempio. Mi pare una qualità tra le più preziose al mondo, un po' come il fobico invidia a morte l'oratore. 
Io fuggo questo vuoto e lui viene a cercami, da dentro, nel letto, sopratutto da steso, mentre penso ad altro, mentre non mi sto preparando, mentre forse davvero non sto pensando.
Avevo introdotto a quel ragazzo il concetto di barriera, di mettere un corrimano in ferro, solido e piantato, davanti a quel baratro mentale, per aggrapparcisi, per avere un punto di contatto e guardare davvero giù.

Solo adesso mi rendo conto di che sciocco e sbruffone ero.

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