giovedì 20 novembre 2014

Cassetto n°145

Incredibile come ti restano addosso le cose finite, ci eravamo lasciati con una telefonata, dopo sei anni.
Decisi che sarei andato in montagna da solo, pensavo spesso di farlo, quella volta lo feci.
Nessuno va a Sestola in ottobre, io ci andai, presi accordi telefonici per un alloggio ai piedi della vecchia funivia abbandonata e salì in macchina.
A Sestola ci ero stato due volte, una in bus, una in treno sempre con lei, suo zio aveva una casa che ci lasciava usare, era bello, non sapevamo mai se il riscaldamento funzionava o no finché non eravamo là.
Arrivati si faceva la spesa e si faceva l'amore, quasi subito, mentre lo facevamo fissavo lo sguardo sempre su un lampadario a palla di vimini intrecciati che è la cosa che più mi è rimasta impressa. Io non so perché restino tanto impresse delle cose strane come quel lampadario, forse perché eravamo felici.
Poi non ricordo molto cosa facevamo, forse delle passeggiate.
Decisi di risalire il sentiero fino al passo del lupo, che ci si arriva subito, è solo il nome ad essere imponente, lungo la salita c'è un cimitero molto bello, ci eravamo capitati, una notte, con tutte le lucine accese, ed era stato un momento elettrico, strano. 
Di giorno faceva meno figura, pensai, e notai che c'erano delle tombe vecchie, davvero lasciate andare.
Allora, in quei momenti, che stai male e ti sembra anche di avere sti gran slanci di bontà e purezza, tolsi dei fiori dalle tombe più agghindate e li misi in quelle tombe spoglie.
Ero in una gran comunione con le strade e con la terra, in una specie di apnea entusiastica godendo del peso degli scarponi e di ogni asperità del terreno, ripresi a salire, cercando di posticipare l'arrivo finché potevo.
Ricordavo che su c'era una bella baita in legno, tra i prati, che presto sarebbero stati sepolti di neve.
Ricordavo che ci avevamo bevuto un caffè, contenti di avere quella serata lì, solo per noi e volevo rivedere il montanaro coi lunghi baffi che stava dietro a quel bancone da sempre.
Arrivai, varcai la soglia del Rifugio Morena, col cuore a mille. L'ambiente era in penombra, subito riconobbi l'odore di legno e resina, la sagoma della volpe e del gallo cedrone impagliati, immemori, i passi fino al bancone erano sei, procedevo emozionato, ripetendo mentalmente un caffè, già sapendo che, davanti al vecchio coi baffi, le parole sarebbero uscite stentate.
E allora quel vecchio mi avrebbe detto, ma che caffè… questo è quel ci vuole! E giù di liquore artigianale, lo faccio io!
Buttalo giù ragazzo, e dimmi che succede.
E allora avremmo parlato per un'ora, e mi avrebbe spiegato le donne e i sentieri per i funghi e la caccia alla martora, e io sarei tornato al mio alloggio, magari una sega e avrei dormito, per tornare il giorno dopo al resto della mia vita, un po' meno rotto.

Appoggiai le dita al bancone, tremavo, ma avevo caldo, mi schiarì la voce, la porta dietro al bancone si aprì, lenta ed uscì un cinese


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